Da giovane, Giosuè Carduci (1835-1907) fu anticlericale e antimonarchico convinto. Collaborava con diverse riviste clandestine, con ardore impareggiabile. Tuttavia, quanto ci fosse di vero nel suo animo e quanto, invece, la sua personalità rispondesse con entusiasmo ai fermenti culturali di quel periodo, non è facile capire. Attivissimo come contestatore di ciò che si stava profilando all’orizzonte da tempo, Carducci lo sarà meno negli anni della maturità, quando, in possesso di un prestigioso pubblico impiego, deciderà di contenere i sacri furori ed entrerà a far parte del sistema. Prova ne sia la visita alla neo-regina Margherita di Savoia, nel 1878, di passaggio nell’Emilia, e la composizione a lei dedicata, trasudante servilismo e banalità (“Eterno femminino” è la non memorabile impresa). Resisterà il suo anticlericalismo semplicemente perché i Savoia erano notoriamente mangiapreti (per un po’ il Regno d’Italia mostrò veramente i muscoli al papa).
A Carducci premeva sostenere che la nuova Italia sarebbe potuta sorgere facendo appello alle storiche virtù della Penisola, richiamandosi, in particolare, alla presunta santità delle costituzioni comunali del Medioevo. Il poeta rievoca così i bei tempi dell’ Arcadia, a loro volta legati (lo dice lo stesso nome, “Arcadia”, antica regione greca dove i pastori vivevano fra zufoli e amori lattemiele) alle elegie campagnole, in onore di flora e fauna, di cui lo stesso Virgilio fu contagiato (si ricordino le Bucoliche e le Georgiche del grande poeta latino, una volta tanto non curiale).
Ma il nostro poeta viveva nell’Ottocento e i contadini moderni morivano di pellagra, una malattia causata da scarsa alimentazione. L’Italia nata nel 1861 (un mosaico di staterelli appiccicati fra loro a viva forza con la pessima colla borghese, nostrana – di malavoglia – o straniera) era lo stato più conservatore d’Europa, grazie al latifondo, alla mezzadria, a loro volta facilitati dalla esclusione della Penisola dalle vicende mondiali. Il contro riformismo e il fallimento del Concilio Tridentino avevano tolto centralità al potere della Chiesa di Roma: per consolazione, rimaneva la dizione “Chiesa cattolica” (universale) ad una istituzione che in realtà si ritrovava molto ridimensionata e presto emarginata rispetto alle decisioni internazionali e alla relativa intraprendenza commerciale e culturale. Non dimentichiamo che Lutero e Calvino avevano, indirettamente, dato linfa vitale alla responsabilità laica delle vicende, in luogo di precedenti richieste di permessi ecclesiastici.
Sulla storia che procede a grandi passi, mentre in Italia non ci si muove di un centimetro, Carducci sorvola cercando consolazione e fierezza nelle mitiche pratiche classiche, nelle quali, la Penisola, con la sua retorica ciceroniana e i suoi archi di trionfo romani, brillò, seguitando a brillare con la ripetizione esasperante di rime e ritmi reboanti quanto esangui. Intendiamoci, ai tempi di Cesare e Augusto quella retorica aveva anche della sostanza (per lo meno nell’omaggio alla ben più corposa espressione classica greca e ateniese) mentre nell’Ottocento, altro non è che un fastidioso ritornello, ricco di assurdi anacronismi e di inutile presunzione. Il poeta stesso se ne rende conto, chiamando il popolo in armi e concependo il contadino miserabile come un corpus da spingere alla “eroica morte” in guerra per la grandezza della novella patria (D’Annunzio, fra gli altri, raccoglierà questo “invito” e completerà la vergognosa visione di benestanti intenti a spedire al fronte cafoni e presunti semi-animali per ottenere la purezza della razza italica!).
Alla fin fine, Carducci se ne sta in disparte, pontifica, critica con voce tonante, fa operazioni di nostalgia, ma non agisce molto di più, concretamente, della Chiesa che tiene a bada la massa ignorante e analfabeta affermando, in buona sostanza, che Dio ha voluto così, ha voluto, cioè, che esistano ricchi e poveri, padroni e schiavi, e che non è possibile né giusto cambiare le cose. Ognuno deve accettare la propria condizione, e ringraziare pure il cielo!, specie i poveri (ovviamente: la cosa fa molto comodo, consente di tenere a bada gente scontenta e delusa).
Dietro le composizioni para-classiche, Carducci nasconde una irresolutezza intollerabile: lancia il sasso e nasconde la mano. Dice di sognare la democrazia e persegue una forma di dittatura, grazie alla quale i privilegi di “gente che conta” devono essere preservati per il bene stesso di “chi non conta”. Sapere il latino, esprimersi con proprietà accademica, sono per lui dimostrazione di intelligenza superiore, meritevole di considerazione e di ossequio. Anzi, addirittura mancano gli applausi o sono meno calorosi del dovuto.
Si pensi a quanto la mentalità conservatrice di gente in vista come lui abbia influito sui ritardi dell’evoluzione laica in Italia – sacrosanta per la dignità umana, specialmente nella patria dell’Umanesimo – e si capirà perché tuttora il potere clericale riesca ad influire sulle menti cosiddette deboli della società: sono deboli per per le dimensioni ridotte della cultura e per la mancanza di rispetto nei confronti del prossimo. Resisteranno le frasi fatte e le posizioni tradizionali, in assenza della giusta catarsi. Resisteranno piazza San Pietro, il papa con la benedizione domenicale, a la speculazione finanziaria del Vaticano. Resisterà la morale cattolica accanto alla pedofilia, l’omelia accanto all’ipocrisia, la fiducia accanto ai tradimenti di chi ha il potere e lo esercita a sua discrezione. Ma su tutto, bisogna ripeterlo, mancano i valori spirituali, manca l’etica, manca la responsabilità individuale, manca un freno al rotolare folle del mondo. Mancano arte e cultura e, purtroppo, non mancano i surrogati dei quali, Carducci, fu tra i primi maestri moderni.
Dario Lodi
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