La cerimonia d'insediamento del Presidente americano Joe Biden ha voluto affermare, in modo spettacolare, i valori fondanti degli Stati Uniti mediante il recital vocale di due artiste di conclamata fama: Lady Gaga e Jennifer Lopez.
Il lato specifico degli stili che caraterizzano le due cantanti è stato abilmente sintetizzato nella gestualità comune dell'aspetto celebrativo. Voglio dire che, in questo caso, il lato “pop-rock” è diventato sfondo di comunicazione, eredità espressiva tacitamente accolta per empatia, lirismo di forte e semplice evidenza. Si è realizzato, nello spazio specifico di un naturale “Song Fest”, l'incontro comunitario, spontaneo fra pubblico e nazione: quasi un gesto liberatorio dopo gli anni asfittici della presidenza di Donald Trump.
Per questo atto comunicativo, Lady Gaga ha reinventato, attraverso il “medium” generoso della sua creatività, l'Inno nazionale americano, puntando sugli elementi fortemente riconoscibili insiti nella musica e nelle parole. E' stato come se quella musica, appartenente alla quotidianità degli “States”, suonasse nuova, per la prima volta.
Jennifer Lopez, impegnandosi alla massima potenza nella sua vocalità, ha cesellato, come in un “song” di Gershwin, due celebri canzoni:“This Land is your Land” e “America the Beatiful”. Il lato innovativo, ma non ingombrante, dello stile “remix”, ha permesso all'esecuzione quel tono conciliativo fra classico e moderno che, anche in questo caso, è servito ad affermare i valori fondanti della democrazia americana in patria e nel mondo.
Se Donald Trump, nel suo giorno d'insediamento, ha preferito glissare verso il silenzio dell'anonimato , per quanto riguarda il lato musicale, Joe Biden ha voluto solennizzare in modo eloquente la sua presenza come un
vero ritorno agli storici principi americani. La musica, attraverso Lady Gaga e Jennifer Lopez, ha parlato un linguaggio aperto e comune a tutti gli abitanti di questo pianeta, superando la retorica e la pomposità.
L'espressività musicale si è concentrata su quello che possiamo definire il lato irripetibile dell'evento stesso: la commozione di poter riascoltare ciò che ci appartiene come semplice valore umano. Tutto questo ci insegna che, come nell'interpretazione musicale, anche nella politica il tratto genuino, ispirativo del vivere assieme, deve essere ogni volta reinventato.
Tre mesi dopo l'insediamento di Biden, un altro evento, purtroppo luttuoso, ha segnato l'America musicale : la morte del direttore d'orchestra James Levine.
Il suo nome è stato celebre nel mondo come direttore musicale del Metropolitan di New York per oltre quarant'anni.
James Levine ha dato un'impronta definitiva a quella complessa macchina operistica che è il Metropolitan, centralizzando su se stesso quasi l'intera produzione del teatro.
Il teatro d'opera di New York, pur avendo un retaggio artistico di grande levatura, non è mai riuscito a crearsi una immagine unitaria, preferendo frammentarsi nella galassia di eventi musicali memorabili e di grande remunerabilità. Dopo la costruzione della nuova sede, nell'area del Lincoln Center ( il vecchio Metropolitan era stato demolito nel 1966 perchè inagibile), si era resa necessaria una guida giovane e americana che potesse trasmettere una immagine nuova della musica operistica nel mondo. Come oggi per Joe Biden, anche James Levine rappresentava, nel lontano 1971, la nuova identità musicale americana, capace di affermare la propria inequivocabile presenza nel mondo globale del teatro d'opera.
James Levine dirigeva al Metropolitan un repertorio molto vasto che andava da Mozart ad Arnold Schoenberg, passando per Rossini, Verdi,Wagner e Richard Strauss.
Le sue qualità di preparatore di cantanti gli ha permesso di lavorare con nomi come Luciano Pavarotti, Placido Domingo, Jessy Norman. In Europa ha diretto alcune produzioni al Festival di Salisburgo e al Festival di Bayreuth. Il lavoro svolto nel teatro d'opera corrisponde alla vecchia tradizione, ormai quasi scomparsa, dei Kappelmeister tedeschi, dove le funzioni totali, amministrative e tecnico-musicali, venivano riassunte in una sola persona.
L'ultima apparizione di Levine sul podio del Metropolitan è coincisa con una replica de “La sposa venduta” di Smetana. Quest'opera, molto rappresentata a New York, è stata anche l'ultima direzione al Metropolitan di Gustav Mahler. Nel momento del commiato, a distanza di un secolo, i due musicisti si sono trovati davanti allo stesso spartito.
Negli ultimi anni James Levine era stato travolto da una campagna mediatica diffamatoria che lo accusava di molestie sessuali, assieme a Placido Domingo. Dai programmi televisivi statunitensi, appare uno scenario squallido di accuse in cui si nota più che altro il desiderio di fare “tabula rasa” di tutte le esperienze artistiche tesaurizzate dal Metropolitan tramite Levine. Ossia, la volontà di estromettere definitivamente alcune persone che hanno dato peso e valore alla cultura americana.
Lo scandalo mediatico si rivela sempre lo strumento più efficace.
In queste circostanze, l'America mostra il ritratto controverso di un continente volto a riproporsi come mediatore fra civiltà e istituzioni in crisi.
L'incapacità di elaborare lutti arcaici, come la pressione colonialistica iniziale, la necessità di importare modelli europei nel culto artistico, ma soprattutto il timore di perdere il suo difficile ambito identitario: questi sono le paure che sovrastano l'America. La sospensione di ogni giudizio è l'unico valore positivo che riteniamo essere ancora valido.
Sergio Mora
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