La nascita di ciò che comunemente s’intende per spettacolo teatrale contemporaneo, può essere collocata nel periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo; momento in cui in Europa dilagava un’ansia di rinnovamento, che ha coinvolto tutti gli aspetti del teatro, dalla drammaturgia alla messinscena, dall’architettura teatrale all’illuminotecnica, dalla scenografia alla recitazione.
L’indebolimento della fiducia in un’analisi scientifica della realtà, e nelle sue possibili applicazioni a teatro, mediante la mimesi della realtà stessa, diede luogo ad una duplice e contrastante reazione: -da un lato si verificò un approfondimento delle concezioni naturalistiche, che vennero condotte alle estreme conseguenze; -dall’altro si ricercarono sistemi alternativi di analisi della realtà, che comportarono il progressivo distacco dal naturalismo, in direzione della conquista di nuove valenze simboliche in grado di evocare la vita nei molti, e non sempre tangibili, suoi elementi costitutivi.
L’evento che segnò il corso della storia dello spettacolo di questo periodo, fu la nascita della regia.
Parallelamente all’ascesa della figura del regista, inteso come artefice e creatore della messinscena, si assistette alla fondazione di sale ed enti teatrali che si impegnarono con piena autonomia nelle scelte artistiche di repertorio, favorendo in tal modo la diffusione di testi e sollecitando la produzione drammaturgica di nuovi autori.
La messinscena assunse presto un’importanza altra rispetto al testo, e persino rispetto alla presenza fisica dell’attore, indicando così suggestioni originali, nel tentativo di dare forma e concretezza al simbolo e ai valori ritmici e musicali.
La nascita della regia costituì un vero e proprio atto di rottura rispetto alla prassi precedente del fare teatro: non si trattò della razionalizzazione e di perfezionamento di ciò che era già acquisito, bensì dell’affermazione di una nuova concezione del teatro, nella quale si concretizzarono l’armoniosa e coerente realizzazione d’insieme dello spettacolo, e l’importanza della messinscena come atto di creazione artistica indipendente.
Allo sviluppo dell’esigenza di un teatro rinnovato, contribuirono l’allargamento della base socio-culturale degli spettatori, nonché la conseguente differenziazione della committenza, che implicarono necessariamente risposte differenziate: non era più sufficiente un unico modo di fare teatro, un unico modello di sala teatrale, di scenografia, di recitazione, evidentemente.
Alla comune aspirazione al rinnovamento, corrisposero teorie e pratiche diverse, che consentirono comunque la coesistenza di istanze anche diametralmente opposte, come ad esempio la perfetta contemporaneità di Naturalismo e di Simbolismo in Francia.
Tra gli elementi che favorirono la nascita e il radicamento del fenomeno registico, ebbe la sua importanza lo sviluppo della tecnologia: l’accresciuta potenzialità tecnologica della spettacolo (in particolare l’introduzione dell’illuminazione elettrica, della diffusione sonora e della scenotecnica), e le conseguenti divisioni e specializzazioni del lavoro all’interno dell’ “industria teatrale”, determinarono la necessità di avere una figura che fosse capace di sottoporre i singoli contributi professionali al vaglio critico di un’interpretazione unitaria e coordinatrice dei differenti codici teatrali.
Non meno significativa fu l’affermazione del Realismo in teatro: dapprima lo Storicismo (che spinse alla reinterpretazione dei classici e maturò l’esigenza di un’ambientazione filologicamente corretta dei testi) e poi il Naturalismo (che aveva l’obiettivo di riprodurre fotograficamente la realtà sociale), resero indispensabile un mediatore, culturalmente preparato e tecnicamente competente, tra il pubblico e gli attori, affinchè lo spettacolo teatrale fosse un’opera d’arte unitaria.
L’avvento del teatro di regia in Italia
Rispetto al resto d’Europa, l’Italia rivelò un netto ritardo e un’anomalia singolare rispetto il fenomeno della nascita della regia: nonostante si manifestasse nel Paese una certa inquietudine, che l’accomunava al resto del continente, attraverso una serie di proposte riformatrici in direzione di un più efficace controllo dell’autonomia attoriale, e di un accentramento di responsabilità nell’allestimento scenico, tuttavia l’Italia rimase sostanzialmente estranea al rinnovamento che in altri paesi europei aveva già condotto all’affermazione della regia.
Né la figura del direttore, caratteristica delle compagnie itineranti, poteva essere giudicata analoga a quella del regista, essendo mediamente un attore più esperto degli altri, intento ad impartire direttive limitate all’interpretazione nel corso brevissimo delle prove, senza alcuna cura per la chiave interpretativa del testo e la cifra stilistica dello spettacolo.
Fra i fattori che concorsero a spiegare il ritardo dell’affermazione della regia nel teatro italiano, va segnalato in primo luogo il fenomeno dell’attore “mattatore”: questo aveva una posizione preminente rispetto ai colleghi e ad ogni altro elemento della rappresentazione, ed era totalmente indifferente nei confronti di una concezione globale dello spettacolo.
Tutta la tradizione teatrale italiana si fondava sulla tecnica interpretativa affidata al talento e alla personalità di questo singolo interprete, sulla trasmissione familiare dell’arte drammatica, in assenza di scuole adeguate, sul nomadismo delle compagnie e sul sistema dei ruoli; e si perpetuava ancora all’inizio del XX secolo.
I limiti delle compagnie italiane, risiedevano nelle forme e nei ritmi di elaborazione dello spettacolo, che azzeravano totalmente le altre componenti del linguaggio scenico: la scenografia era spesso ridotta all’impiego di modesti materiali in dotazione del teatro, o presi in affitto su piazza, senza alcuna progettazione preventiva; il numero delle prove era ridotto drasticamente a causa dei frequenti spostamenti della compagnia e la necessità di variare continuamente i drammi in repertorio; i costumi erano generalmente limitati al corredo personale dell’attore; carente era la preparazione culturale dell’attore, funzionale solo alla parte che di sera in sera era tenuto a recitare; poco, o niente affatto curato risultava il lavoro d’insieme, tanto che accanto al grande attore lavoravano spesso attori generici di scarsa o nulla preparazione, senza quell’affiatamento tipico di chi si trova a lavorare dal lungo tempo insieme.
Fra i precursori della regia in Italia, vi fu Virgilio Talli (1858-1928), attore e direttore di importanti compagnie, che si distinse per l’impegno profuso nell’orchestrazione dello spettacolo, e per la capacità di disciplinare l’estro prorompente tipico dell’attore mattatore.
Dalla scelta del repertorio, aperto a novità ardite, alla distribuzione di volta in volta studiata in modo da favorirne la migliore adesione di ciascun interprete al proprio personaggio (prescindendo dal vincolo tradizionale della gerarchia dei ruoli), dall’estensione temporale della durata delle prove, all’impegno speso nell’impostazione e nel controllo della recitazione e della dizione, dall’approfondimento di studio del testo, alla ricerca della varietà stilistica, Talli rivelò una singolare intuizione del ruolo eversivo che la regia poteva esercitare, pur non avendo ancora piena consapevolezza professionale e senza detenere ancora una decisa scelta di campo. Egli comunque si rivelò non solo un regista ante litteram, ma anche colui che negava e scavalcava la fase “spettacolare” e “sperimentale” della messinscena d’avanguardia, precorrendo il tempo della regia intesa come “lettura critica del testo”, secondo quella che fu poi l’intuizione di Gramsci.
Nonostante la presenza di nuclei sperimentali e di incursioni di teatralità pura, operate da alcuni dei drammaturghi italiani più significativi (si pensi a D’Annunzio, e poi ancora di più a Pirandello), negli anni Trenta in Italia prevaleva ancora la tendenza a sottovalutare gli elementi della spettacolarità, investendo il regista del compito precipuo di tradurre rispettosamente il testo drammaturgico in uno spettacolo teatrale, ponendosi esclusivamente al servizio della poesia.
A rappresentare emblematicamente la molteplicità e la contraddittorietà delle posizioni che si distinsero in tale periodo, vanno ricordate due notevoli personalità intellettuali: Silvio D’Amico (1887-1955) e Anton Giulio Bragaglia (1890-1960).
Il teatro di parola di Silvio D’Amico
Silvio D’Amico fu un critico ed uno studioso illustre, contribuì più di chiunque altro a disegnare l’attuale fisionomia del teatro italiano, rompendo progressivamente i legami con i modelli della tradizione ottocentesca, e proponendo un rinnovamento globale. Egli sostenne tenacemente l’idea di un teatro in grado di far pensare e di suscitare emozioni, legato alla consapevolezza dell’interprete di essere mediatore della parola poetica, segnalando come punti di forza di tale progetto, la formazione degli attori e la regia, intesa come unificatrice dei diversi elementi dello spettacolo.
D’Amico non perse mai di vista la funzione nodale e centrale del drammaturgo, cui solo poteva rivendicare la paternità dello spettacolo, propiziata dall’intervento maieutico del regista.
E non a caso, il predominio del testo su tutti gli altri elementi della rappresentazione, caratterizzò gli esordi della nostra regia, proprio per l’influenza culturale esercitata nel nostro mondo teatrale da Silvio D’Amico. Egli infine si prodigò per affermare la necessità indifferibile di restituire dignità alla professione dell’attore, attaccando duramente la tradizionale predominanza mattatoriale.
Il teatro “visivo” di Anton Giulio Bragaglia
Sul versante opposto a D’Amico, si collocava Anton Giulio Bragaglia, proveniente dalle file del Futurismo e tenace sostenitore delle avanguardie; molto contrastato sia dai critici che dai letterati suoi coetanei, dotato di una vitalità affatto scalfibile, disposto a trasferire in Italia tutte le esperienze teatrali del contemporaneo panorama europeo, egli riuscì a sopravvivere nel contesto del teatro della sua epoca soltanto marginalmente, fondando e mantenendo faticosamente due spazi teatrali, gli unici allora riservati nel Paese a nuovi autori e alla sperimentazione: Il Teatro degli Indipendenti (1922-1931) e il Teatro delle Arti (1937-1943).
Bragaglia proponeva un “teatro teatrale”, sottratto al dominio dei letterati e affidato ad un corego. Le sue idee sulla regia erano in opposizione a quelle di D’Amico e tendevano ad un “riscatto del visivo”, cioè del complesso di tutti i codici che, dalla scenografia alla gestualità, formavano l’etichetta più schietta del teatrale.
Egli non predicava l’abolizione del testo, ma pensava ad un testo “integrale”, in cui tutta la varietà dei codici e delle arti (pittura, musica, danza, etc) concorresse armoniosamente a produrre un teatro di cui il modello storico si poteva riscontrare nella tradizione della Commedia dell’Arte.
L’istintiva teatralità di Bragaglia, culminava nel profilarsi di una scrittura non drammaturgica, affidata ai segni della presenza attoriale, della danza moderna, della scena e delle luci. Dopo gli esordi, nelle sue messinscene il visivo s’inspessì vistosamente, assumendo colori e materia; la coscienza della parola non era in grado da sola di creare l’atmosfera teatrale, e Bragaglia premeva così verso una scenicità sempre più fastosa, da cui scaturiva un’autentica passione per le meraviglie della scenotecnica. In tali opere, la figura del regista, o “mettinscena”, come definito da lui stesso, divenne determinante; tuttavia, nonostante il suo culto per il bizzarro, che lo collocava agli antipodi della concezione di regia di D’Amico, è innegabile che Bragaglia in sostanza concordasse con lui sull’appiattire la regia al mero nesso “testo/attori”.
D’Amico aveva una visione “attorica” della regia, pensandola come un insieme concertato di interpreti, e premeva sull’importanza della gestualità e della dizione; Bragaglia invece puntava sulla scenotecnica, inseguendo una direzione “visiva”. Al di là di queste differenti (almeno in apparenza) prese di posizione, la situazione teatrale in Italia rimaneva ancora assai confusa, e riduceva il ruolo del regista a mero “illustratore fedele del testo”.
Dopo mezzo secolo di esperienze prevalentemente straniere, cui in Italia avevano fatto eco solo alcuni tentativi, la regia si affermò concretamente nel panorama teatrale del nostro Paese solo negli anni Quaranta.
Alla regia venne in quel periodo riconosciuto un ruolo egemone; finita l’epoca in cui lo spettacolo nasceva dal piatto trasferimento di un testo drammaturgico sulla scena, esso assunse finalmente l’identità di un evento creativo autonomo.
La regia così finì per fornire un’interpretazione spesso inedita, e comunque soggettiva e originale del testo, avvalendosi di tutta la tastiera messa a disposizione dall’arte teatrale e accordandola al proprio progetto unitario. Il regista incominciò a far sua l’opera da rappresentare, per ricavarne una sintesi capace di dar luogo ad una creazione letteralmente “nuova”: il regista divenne autore dello spettacolo teatrale, tanto quanto il drammaturgo fosse l’autore indiscusso del testo.
Piegando alle esigenze di un progetto interpretativo e creativo i diversi linguaggi dell’arte teatrale (testo, spazio, scenografia, recitazione, prossemica, costume, trucco, musiche, illuminotecnica, etc.), il regista li promosse al rango di codici espressivi autonomamente significativi.
In tale complessiva riconquista dei valori della spettacolarità, rispetto la preminenza assoluta del testo letterario, risiedette una delle acquisizioni più significative del teatro di regia in Italia.
Laura Carroccio
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