La pornografia fu legalizzata nel 1969 (in Danimarca) nell’ambito della reazione sessantottina al sistema tradizionale del potere borghese. La legalizzazione fu salutata ovunque come un doveroso atto di liberazione. “La pornografia è nella nostra testa”, tuonarono gli intellettuali. “L’amore non ha nulla di sporco”. Come si vede, una certa confusione e delle dichiarazioni di principio emesse senza tenere alcun conto della storia, ovvero dell’accumulo di comportamenti opposti all’istinto per semplici ragioni di convivenza ordinata, sino, magari, ad eccessi repressivi di natura sessuale. Ma l’auto-coscienza e la messa in riga (per quanto possibile) dei sensi elementari (che garantiscono la riproduzione) non può che avvenire gradualmente, fissandosi prima di tutto nella psiche: d’altronde cambiamento necessario, data la nascita dell’uomo nuovo (si direbbe hegeliano: ciò che è razionale è reale a fissare la formula di partenza, ovvero ciò che è reale è razionale). L’uomo nuovo, forgiato dalla fabbrica (e quindi capace di sviluppare un’intelligenza parziale, quella dedita al fare) aveva ormai l’esigenza di creare un mondo moderno, dove tutto doveva essere sotto controllo, anche l’imponderabile, l’ineffabile (come se l’intelligenza parziale fosse totale).
E qui si sbracò. Letteralmente. Chi si mise a praticare la pornografia, registi e attori, dicevano di farlo come liberazione dai legacci precedenti, mentre si trattò, chiaramente, di cavalcare una grande occasione commerciale. Lo capì per primo Lasse Braun (Alberto Ferro) che s’ispirò alla produzione danese e fece dilagare il fenomeno in tutto il mondo. Ovviamente la capacità produttiva e distributiva statunitense lo capeggiò con pellicole più complesse (si fa per dire, comunque con delle storie) e più sfacciate (simpatica, invece, la traduzione cinematografica del romanzo “Josephine Mutzenbacher”, 1906, di autore sconosciuto: il film, ironico, è del 1970, regia Kurt Nachmann, interprete Christine Schuberth, poi vi furono vari sequel non alla stessa altezza). Nel 1972 fece scalpore, ottenendo guadagni stratosferici, “Gola profonda” di Gerard Damiano (Gerardo Rocco) con Linda Lovelace (Linda Susan Boreman). Da noi, poco più tardi, fecero fortuna Riccardo Schicchi, con le sue “attrici” Cicciolina (Ilona Staller), Moana Pozzi, la sorella Baby (Maria Tamiko), Eva Henger; e Joe d’Amato (Aristide Massaccesi), un regista buono per tutti i generi. L’intero baraccone deragliò dopo un viaggio tribolato, fatto puntualmente di cose pessime, durato una ventina d’anni. Arrivò Internet e le sale cinematografiche chiusero bottega. Il porno dilagò, e in modo più diffuso, attraverso la Rete. Si calcola che oggi i contatti Internet siano per l’80% di carattere porno.
Il fenomeno la dice lunga sull’educazione sessuale appresa dalle generazioni dopo il ’68: pari a zero o poco più. Nel fortunato romanzo “Porci con le ali”, 1976 (editore Savelli) di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice (Rocco e Antonia), l’anno successivo anche film (per nulla memorabile), il tema della liberazione sessuale viene sviluppato, seppure senza approfondimenti, risultando interessante ciò che si ricava dalla iniziativa rivoluzionaria affrontata senza alcuna volontà riflessiva. Una caduta di peso. In un’intervista, la Ravera rivelò l’amarezza per la pratica dell’amore promiscuo e casuale (etero e omo), col senno di poi ravvisabile in una precisa frustrazione esistenziale. La schiettezza della scrittrice è il testamento più lucido di un periodo vissuto nel limbo fra presunzioni accennate e atti plateali compiuti senza un minimo di testa, di partecipazione: tutto il contrario di quanto previsto. Siamo ancora in mezzo al caos, prede di rivendicazioni verbali che prima o poi, perché abbiano un senso, dovremo affrontare seriamente. (Dario Lodi)
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