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La prima guerra mondiale e le conseguenze




Per l’Italia, la Prima guerra mondiale fu la vera unificazione del Paese. Massimo D’Azeglio aveva detto: “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli Italiani”. Ciò avvenne nelle trincee del Carso, avvenne come unione spontanea fra i vari popoli della Penisola. La fondazione del Regno d’Italia, nel 1861, voluta da borghesi affaristi, ebbe il battesimo sociale fra una bomba e l’altra. Un battesimo superficiale, intendiamoci, dettato dagli eventi. L’Italia non entrò in guerra nel 1914, ma nel 1915 dopo mille tentennamenti. Prima dell’evento era stata alleata con una parte, poi, quasi all’ultimo minuto, si alleò con la parte opposta (una nostra tipicità). La coalizione scelta dava più garanzie, soprattutto per la presunta tenuta dei Francesi, impegnati contro i Tedeschi. La forza italiana fu sopravvalutata? Certamente sì, ma si pensava ad una guerra di pochi mesi: l’Italia avrebbe attaccato nel Veneto ed oltre per tenere impegnati gli Austriaci. Le previsioni si rivelarono del tutto sbagliate per il tipo di guerra che fu messo in atto: guerra di posizione con attacchi organizzati all’ultimo momento, nonostante il fuoco delle mitragliatrici.



Ci furono massacri terribili. Che c’era al fondo di questa decisione degli alti comandi da una parte e dall’altra?

C’era il disprezzo per la massa, per la gente comune, considerata poco più di un animale da traino o da macello. Il sistema aristocratico, che era stato disumano per ignoranza e tradizione, fu sostituito dal sistema borghese, disumano per avidità.


L’avidità aveva portato ad una concorrenza spietata e questa concorrenza provocò una sovrapproduzione che fu responsabile della prima grande crisi finanziaria europea durata dal 1873 al 1895 e superata con operazioni d’ingegneria economica e con tentativi di allocazione nelle colonie africane dell’eccedenza produttiva. L’ingegneria e l’allocazione tennero per poco tempo (ma tennero e questo diede fiato all’euforia del tempo, denominato della “Belle Epoque” una specie di vacanza della ragione), i guai rispuntarono presto: non restava che il tentativo di conquistare i mercati con le armi: da qui la cosiddetta Grande Guerra 1914-1918. Gli interessi materialistici avevano così preso il sopravvento, coinvolgendo in essi anche una realtà, come quella italiana, da secoli regolata da una civiltà basata su un bonario latifondismo e su una religione conservatrice e consolatoria uscita dal concilio tridentino di fine ‘500.



L’immane confronto bellico europeo mise la parola fine all’impero Austro-Ungarico e decretò il crollo degli Asburgo, padroni del Continente, direttamente o indirettamente, per diversi secoli.

Gli Asburgo erano stati i garanti del Sacro Romano Impero. Quando la Chiesa pensò di provvedere da sé alla garanzia, l’Impero cominciò a sgretolarsi, anche perché la pretesa di Carlo V, concepita in buona fede, di ridimensionare il potere religioso, favorì la ribellione dei principati tedeschi. Il sacco di Roma del 1527 dimostrò, psicologicamente, che si poteva fare a meno della istituzione imperiale cristiana. Martin Lutero, che intendeva purificare la Chiesa e quindi rifondare il Sacro Romano Impero su basi veramente religiose, fu sconfitto dall’intraprendenza laica dei principi che l’avevano sostenuto. Dopo le varie, tremende guerre, cosiddette di religione, durate sino all’epoca napoleonica, la costituzione dell’Impero Austro-Ungarico rappresentò una specie di rifugio per i vecchi sistemi sociali di stampo feudale.

E’ vero, Napoleone sciolse ufficialmente il Sacro Romano Impero nel 1806, ma poi, caduto il francese, vi fu la Restaurazione e si riformò un’idea unitaria europea (persino da parte russa) sommersa, ma non soffocata. A rendere la ricreazione impossibile, fu l’ascesa della Germania – la più importante nazione industriale sino all’avvento degli Stati Uniti – a potenza continentale. La Germania voleva sottomettere l’Europa con i fatti, non con le parole. Aveva la logica opposizione di Francia e Inghilterra: la prima sua eterna contendente del potere in Europa, la seconda interessata a creare un certo predominio commerciale, data l’affluenza di merci dal suo immenso impero coloniale. La “Finis Austriae” significò la fine ufficiale e definitiva di Medioevo e Rinascimento, di quelle mentalità, comunque importantissime per la crescita umana.


Le conseguenze: La Prima guerra mondiale è un evento epocale per eccellenza. E’ lo spartiacque fra due modi di essere: il secondo decisamente votato ad esaltare il progresso materiale ottenuto e ottenibile attraverso l’iniziativa privata. Anche il feudatario era libero di agire, ma entro un sistema rigido. In sostanza era come se egli avesse un mandato, non era padrone del feudo (anche se molti feudatari, per vicende particolari, lo divennero). L’imprenditore dell’800 non riconosce l’autorità dello Stato, se non come organismo d’ordine sociale a favore dei propri interessi. Egli si crea un potere produttivo che alimenta con l’aiuto della finanza: si viene a determinare un circolo chiuso, virtuoso in maniera indiretta e discrezionale, che, per la sua forza economica, prescinde dai governi. Vale poco la reazione a questo mostro da parte di coloro che lo subiscono. Grazie al marxismo, vengono soddisfatte alcune rivendicazioni, ma non viene intaccato il sistema.


Il governo sta con l’imprenditore, non con l’insieme degli uomini che forma la società. Tutto questo spiega perché dopo la guerra, le cose ritornano come prima, anzi peggio di prima. Nascerà la dittatura borghese, il Fascismo, sollecitata dalla vittoria del comunismo (in realtà una sua parodia) in Russia nel 1917.

Peggio di prima sono le cose grazie anche alla disinvoltura finanziaria. Lo dimostra il crollo bancario di Wall Street nel 1929 (il famoso venerdì nero): darà il là all’avvento del Nazismo e sarà fra le cause della Seconda guerra mondiale, combattuta per eliminare l’avversario, il concorrente al bene che s’è ridotto e che non si vede come ripristinare. I Tedeschi attuano alla perfezione questo programma, sterminando i più deboli: il lager è la rappresentazione del fallimento del capitalismo “neandertaliano”. Nella Seconda guerra mondiale, che è la continuazione della Prima (ma fu molto più sanguinosa) avviene un fenomeno nuovo: l’impegno totale degli Stati Uniti nelle vicende mondiali. Il conflitto supera nettamente i confini europei e favorisce il successo della mentalità americana, fatta di visioni molto più estese di quelle delle potenze europee e caratterizzata da un puritanesimo che esalta la morale (pur per atavico timore del “dies irae”).


Non è possibile negare il determinante contributo sovietico in Europa, né quello inglese, nella seconda parte del XX secolo, ma essi sono legati ad una visione ristretta del mondo (lo dimostrerà la pantomima della Guerra Fredda fra Usa e Urss). Gli Americani diventano potenza mondiale assoluta all’indomani dello sganciamento di due bombe atomiche su città

giapponesi inermi. Si autopuniscono, opportunamente (ma non agirono solo per bassi

interessi: il loro puritanesimo recitò una parte notevole nel dopoguerra) aiutando economicamente sia i Paesi vincitori che quelli vinti e varando nuove politiche (mercato globale, GATT 1947, oggi WTO) che avevano lo scopo eliminare il pericolo di nuove guerre mondiali.

La nascita del mercato globale doveva sterilizzare le contrapposizioni fra i Paesi e creare una logica di profitto possibile per tutti e di fenomeno commerciale progressista attraverso la concorrenza pacifica fra le parti.



Nella realtà, il capitalismo – ormai senza concorrenti grazie alla caduta della Unione Sovietica – si sovrappose all’intenzione politica e agì concretamente tramite impegni finanziari, incoraggiati e sostenuti dal sistema, sfruttando i bassi costi di lavoro dell’Asia, specie della Cina, e provocando un abbassamento del tenore di vita in Occidente. L’idealismo americano fu parzialmente sporcato dall’ affarismo, per dare alla finanza americana la possibilità di guidare il fenomeno della globalizzazione commerciale: un pretesto etico che ha di fatto peggiorato le condizioni di vita (welfare) dell’Europa civilmente progredita, modello, in cammino, per l’umanità. Economisti più capaci, e uomini di Stato più coraggiosi, avrebbero potuto dar vita, invece, ad una politica di aiuti ai Paesi poveri, una politica tipo Piano Marshall. Una cosa più lenta, meno traumatica, e vantaggiosa per le parti. Più seria e produttiva, in tutti i sensi, per l’umanità intera.

Dario Lodi






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