Appunti attorno alla scomparsa di Krzysztof Pendererecki
“Credo che l’originalità del linguaggio, l’assoluta indipendenza delle idee e la volontà di aprirsi agli altri siano valide alternative ai Muri. Di qualsiasi tipo essi siano.”
In questi mesi in cui il mondo si è fermato per affrontare l’emergenza pandemica ormai ben nota, è scomparso uno dei più grandi compositori del Novecento: il polacco Krzystof Penderecki (1933-2020). Il suo nome era balzato al centro del mondo musicale negli anni Sessanta, quando il musicista si era progressivamente distaccato dal gruppo dei giovani compositori europei formatisi alla scuola di Darmstadt. Il centro musicale tedesco era sorto nel secondo dopo guerra per far conoscere i compositori e le estetiche che i regimi nazi-fascisti avevano posto al bando. Come la musica Jazz, la “Seconda scuola di Vienna”, rappresentata da Schoenberg, Berg e Webern, era stata definita “Arte degenerata”.
I musicisti favoriti dal nazismo erano quelli che alimentavano, tramite un’estetica decadentistica, i falsi ideali pseudo-romantici di un ritorno al senso panico della Natura e a un concetto astratto di Patria. Richard Wagner e Richard Strauss erano i punti focali su cui era orientata la costruzione di una ostentata cultura “retrò”. Maderna, Boulez e Stockhausen ruppero in modo traumatico i vecchi modelli linguistici e crearono una grammatica musicale totalmente basata sull’utilizzo in modo estensivo del metodo “dodecafonico”(1). Nacque, forse involontariamente, una nuova “diktat” che stabiliva in modo aprioristico e matematico un solo sbocco stilistico con cui dar forma al pensiero musicale dell’uomo moderno. Alcuni musicisti-formatisi inizialmente al cenacolo di Darmstadt- Luigi Nono, Hans Werner Henze e lo stesso Penderecki- si dissociarono dal “gruppo” e proposero una propria visione della musica senza eccedere in formule troppo restrittive ed esoteriche. Nel 1960 Penderecki scrisse una delle composizioni che lo resero celebre: Trenodia per le vittime di Hiroshima.
Il brano utilizza un organico di 52 strumenti ad arco trattati in modo sottilmente polifonico, producendo l’ingresso progressivo di schegge sonore di varia intensità il cui scopo è quello di imitare la pioggia atomica. Uno sconvolgente accordo di dieci suoni – simile a quello adoperato da Mahler nella Decima sinfonia e da Berg nel finale del Wozzeck- disintegra questo angosciante pulviscolo sonoro in un grido terrificante. Il tema dominante della guerra atomica delinea in modo inequivocabile le nuove paure del “secondo novecento”. Il compositore polacco diventa portavoce di un dramma generale che sconvolge il mondo “a cavallo fra i due secoli” ossia: l’allarme nucleare, il fondamentalismo religioso e il terrore verso nuove malattie ed ignoti contagi. Per questa sua insolita capacità di interpretare la propria epoca, Penderecki è davvero uno dei pochi maestri indiscussi della musica moderna. Oltre all’acutezza umana e sociale da lui manifestata, Penderecki rappresenta un “unicum” per l’utilizzo ampio e disinvolto di un “sincretismo” linguistico capace di modulare tendenze stilistiche molto diverse, volte sempre ad una comprensibilità immediata ma non banale. Gli aspetti più “out” della scuola di Darmstadt vengono piegati ad un linguaggio flessibile in cui tonalità e atonalità convivo all’interno di una forma strumentale spesso dominata dalle percussioni e dagli strumenti detti “metallofoni”. Le tecniche moderne di produzione del suono sono indirizzate ad esprimere il dramma “tecnologico” della nostra vita. Penderecki ha collaborato nel cinema con Stanley Kubrick e William Friedkin per le colonne sonore di Shining e dell’Esorcista. I gruppi musicali più innovativi degli anni Settanta, fra cui i Metallica, hanno subito in parte l’influsso di Penderecki. La sua musica, prestata al cinema, indaga i lati oscuri ed inquieti dell’animo umano. Anche nel teatro, musicando “la maschera nera”(1984/86), testo tratto da un dramma di Hauptmann, la poetica di Penderecki continua ad interrogarsi sulle paure nate dalle guerre e dalle epidemie , dove l’umanità è abbandonata all’interno di forze incontrollate che sfuggono alla razionalità. In quel periodo il compositore scrive il suo “Requiem polacco”. Si tratta di un vero e proprio “regesto” della sua opera di musicista in cui confluiscono, attraverso la sequenza latina del “Die irae”, tutte le tematiche precedentemente trattate, divenute ore oggetto di una drammatica implorazione religiosa davanti al destino del mondo. Come Johannes Brahms e Giuseppe Verdi, Penderecki è capace di trasferire, in una delle più tipiche forme classiche (la messa per i defunti) l’attualità storica e morale della sua e nostra contemporaneità. Le modalità tipiche di un musicista colto sono al servizio della modernità, attraverso un sottile uso degli stili in cui tutto il catalogo delle esperienze sonore è finalizzato ad una narrazione incisiva e avvincente che mai esclude l’interesse del pubblico. Conosciuto come uno dei primi pionieri della “nuova musica” e poi come uno fra i primi contestatori del mondo estetico a cui aveva aderito, Penderecki è stato un precursore del “neo-romanticismo”, da lui vissuto come memoria attiva delle intere esperienze artistiche raccolte dall’umanità. Privo delle semplificazioni che caratterizzano i “neo-romantici”, Penderecki costruisce la sua musica sulle stesse solide fondamenta su cui sono state erette le grandi opere del passato, facendo della problematicità un punto di convergenza fra la Storia e l’Uomo. La memorabile eloquenza dei capolavori musicali non potrà più essere replicata, ma nella coscienza dell’umanità che sopravvive alla Storia rimane intatto il desiderio di tornare a specchiarsi in qualcosa che ne sia la memoria. Penderecki ha voluto essere questa pacata memoria.
Sergio Mora
Note
(1)Per “dodecafonia” Schoenberg intende un “metodo di composizione con dodici note non imparentare fra loro”. Questo sistema, saltando a piè pari il rapporto di “consonanza” tipico della “tonalità”, permette la formazione una nuova sintassi sonora, dominata da sensazioni che rimandano all’angoscia, alla paura e a un generale senso di instabilità prodotto dalla mancanza del vincolo tonale. La “dodecafonia” fa ampio uso del contrappunto e del “fugato” per garantire il senso logico-formale complessivo delle composizioni.
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