(La foto del buco nero all’interno della galassia M87)
Per comporre la prima foto di un buco nero ci sono voluti degli anni e solo adesso ne è stato dato l’annuncio. La foto mostra il buco nero all’interno di M87 (un’enorme galassia a circa 55 milioni di anni luce dalla Terra nel vicino ammasso della Vergine) con una massa di quasi sette miliardi di volte quella del nostro Sole. Intendiamoci, quando si dice “foto” non dobbiamo pensare a quella che si scatta con una macchina fotografica. Nell’intento di semplificare si cade facilmente nella mistificazione e questa ha prestato il fianco alle critiche di alcuni detrattori.
Cos’è un buco nero?
Ormai lo sanno (quasi) tutti: è un oggetto celeste, residuo di una “morte stellare” (il momento in cui finisce il combustibile che alimenta la reazione nucleare di fusione che accende la stella) in cui la gravità fa collassare la materia rimasta su se stessa realizzando un “mostro” capace di inghiottire qualsiasi cosa gli passi vicino e, soprattutto, la luce. Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, infatti, le masse gravitazionali deflettono i raggi luminosi e, nel caso di un buco nero, addirittura li “attorcigliano” intrappolandoli al proprio interno. Non c’è verso quindi di osservare un buco nero (poiché invisibile), ma si può tuttavia osservare la materia che gli turbina intorno prima di essere inghiottita. Quest’ultima, infatti, a causa dell’altissima velocità emette onde radio percepibili con un’adeguata strumentazione. Quello che ci aspettiamo di “vedere”, dunque, osservando un buco nero, è un anello di materia incandescente che orbita attorno ad un disco opaco detto “ombra” del buco nero e questo è esattamente quanto si vede nella foto in questione. Tutto ciò, sfortunatamente, non lo possiamo fare con i nostri occhi, perché la frequenza delle radiazioni emesse dalla materia incandescente cade al di fuori dello spettro luminoso che possiamo percepire.
Com’è stata ottenuta l’immagine del buco nero?
Per realizzare quest’immagine è stato necessario prima di tutto sviluppare il telescopio adatto. Per distinguere i dettagli dell’oggetto serviva un telescopio gigantesco, poiché la risoluzione di un telescopio è proporzionale alla sua dimensione. Si è risolto il problema collegando diversi telescopi terrestri distanti tra loro migliaia di chilometri, dalle Hawaii al Polo Sud, realizzando in tal modo un così detto “telescopio virtuale” di dimensioni pari a quelle della Terra. Nel 2014 è nato perciò EHT (Event Horizon Telescope), una collaborazione internazionale il cui scopo è di studiare gli oggetti estremi dell’universo previsti dalla teoria della relatività generale di Einstein. In secondo luogo è stato necessario sviluppare un sistema di elaborazione dati per mettere insieme l’immagine partendo dai frammenti intercettati dai vari telescopi dell’EHT. La mole dei dati è impressionante: ogni telescopio ha raccolto milioni di Gigabyte di dati, troppi per spedirli via Internet. Si è dovuto pertanto spedire gli hard- disk per via aerea/marittima/terrestre verso i centri di calcolo (uno nel Massachusetts e l’altro a Bonn). L’osservazione è durata appena una decina di giorni, ma l’elaborazione dei dati ha richiesto quasi due anni di lavoro ed è stato un successo tecnologico grandioso che ha coinvolto centinaia di scienziati di tutto il mondo (tra cui molti italiani) appartenenti a team indipendenti tra loro.
Le contestazioni
A valle dell’annuncio sono nate tuttavia alcune contestazioni. Il fisico Antonino Zichichi, ad esempio, ha dichiarato che la foto incriminata non costituisce una “scoperta” e che quindi di quella foto non sappiamo cosa farcene! Alcuni hanno parlato addirittura di elaborazione dei dati a tavolino per creare un’immagine fittizia. Certo la parola “foto” può dare adito ad alcune incomprensioni, tuttavia dire che quella ottenuta era “un’immagine di diversi telescopi per onde radio sincronizzati tra loro con un sistema interferometrico, elaborata per compensare i disturbi atmosferici e ricostruita in falsi colori” sarebbe stato un po’ complicato per molti. Che dire poi del termine “scoperta”? Sicuramente l’esistenza dei buchi neri è cosa ormai assodata nella comunità scientifica, ha ragione Zichichi. L’evidenza sperimentale, tuttavia, è indispensabile nella vera scienza. Quando Galileo Galilei mise l’occhio al suo rudimentale telescopio intorno al 1600 e vide i satelliti di Giove che gli ruotavano intorno, ebbe la conferma che non tutti gli oggetti del sistema solare orbitavano attorno alla Terra. Fu questo un solido argomento a sfavore della allora dominante teoria geocentrica di Tolomeo e a favore di quella eliocentrica teorizzata qualche decennio prima da Niccolò Copernico. Siamo esseri umani d’altronde: anche l’occhio, si dice, vuole la sua parte!
Luca Maltecca
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