Andrea Camilleri (1924-2019) è molto noto per il suo Commissario Montalbano,
ricalcato sulla figura di un cugino di suo padre, Carmelo Camilleri, integerrimo
funzionario di polizia, al quale è dedicato un piccolo capitolo di Esercizi di
memoria, edito da Rizzoli. Non è facile stare dietro alla produzione di Camilleri:
decine di libri, poesie, gestioni artistiche per la RAI (gli si deve, fra il molto altro,
la cura del “Commissario Maigret” con Gino Cervi e Andreina Pagnani) e tanti
ricordi scritti, da cui esce, vivida, l’Italia di un tempo. Il libro citato è stato scritto da Isabella
Dessalvi sotto dettatura di Camilleri, cieco, ed è uno dei meglio riusciti. Il nostro personaggio, qui si
fa ammirare per semplicità e limpidezza, abbandonando quel linguaggio originale (anche troppo) che rende difficoltosa e dispersiva la lettura.
I romanzi di Montalbano sono delle costruzioni complicate che non di rado finiscono in modo
banale. Il loro successo è sicuramente dovuto alle riduzioni televisive, solitamente ben recitate e ben dirette (da Alberto Sironi). Essi s’inseriscono in un filone “giallo” che tanta soddisfazione economica dà agli editori e ben poco alla cultura. L’editoria attuale sposa, generalmente, cose di poco spessore, con tanta violenza e tanta impresa rocambolesca, più la genialità dell’investigatore. Molti romanzi, specie del Nord Europa, sono strutturati in questo modo e hanno aperto la strada ad autori anche nostrani. Ci si dovrebbe chiedere il motivo per cui questo fenomeno attira lettori. Camilleri si distingue tuttavia per la capacità di assumere un certo distacco dalle vicende e dal fatto di non prendersi troppo sul serio. Intuisce quali debbano essere gli ingredienti per realizzare un buon prodotto popolare e segue con puntiglio il copione che ha in testa.
Nulla di memorabile, se non una simpatica bonomia che rende lievi gli ammazzamenti e da
cruciverba le indagini, eseguite da “tipi” convincenti. Montalbano ha qualcosa di più. Camilleri vi ha messo il carattere integerrimo dello “zio” (così chiamava il cugino di suo padre), facendone un campione di dignità. Lo scrittore è francamente un po’ ripetitivo, non esce mai dai rigidi binari che si è imposto. La rigidità è frutto di un’esperienza che invita a non esporsi troppo. Questo non significa che Camilleri sia un opportunista. Di certo, l’appartenenza al Partito Comunista gli giovò nei primi tempi della carriera televisiva, ma poi la sua capacità di mediare, il suo buonsenso e il suo desiderio di quieto vivere, la sua essenzialità immediata, gli fecero guadagnare considerazione e collaborazione. La lettura di Camilleri non richiede impegno, eppure riesce a suggestionare: vuoi per la naturale eleganza dello scritto, vuoi per quell’alone di nostalgia nei confronti della vita in genere
che si respira in ogni pagina: vuoi per un sincero abbraccio all’intero genere umano che rende talvolta preziosa la sua pagina.
Luciano De Crescenzo (1928-2019) è stato autore di una cinquantina di libri,
molti di filosofia, per così dire, spicciola; alla buona direbbe qualcuno ma con un
certo rigore e rispetto per il personaggio trattato.
Ha reso popolare la filosofia? Non è molto credibile, anche perché per impossessarsi di questa materia occorre parecchio studio, un’opportuna metabolizzazione di ciò che si legge, spesso lontano da noi, conoscere la storia e avere qualche dimestichezza con l’arte. Un surrogato d’idee realizzato con lo spirito di De Crescenzo, incuriosisce, attrae. L’ingegnere filosofo a sua volta (anche attore e regista), ha il merito di ironizzare
sulla materia, cercando di renderla lieve e “potabile”. Non è programmaticamente disamina alta e questo, unitamente alla schietta napoletanità dello scrittore, rende il tutto gradevole. Ne esce, tuttavia, una manipolazione di grandi menti e grandi idee che forse soddisfa poco. Il fare sornione e ammiccante di De Crescenzo, toglie comunque peso (spesso inutile) alle cose serie. (Dario Lodi)
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