La linea di quei pochi che sanno scegliere sacrificando se stessi è la luce che illumina il nostro futuro. (Solženicyn)
Le molte dimostrazioni di auto-determinazione, d’indipendenza di pensiero, fanno di Aleksandr Solženicyn (1918-2008) un personaggio particolarmente interessante. Forse si potrebbe aggiungere un utopista, considerando la sua volontà di ragionare senza secondi fini intorno agli eventi epocali. Questa volontà si formò nel tempo, dopo diverse esperienze amare che forgiarono in lui un carattere ampiamente critico e nemico di ogni tipo di compromesso. Il fenomeno ebbe una lunga preparazione. La famiglia di Solženicyn (prima della sua nascita) faceva parte dei kulaki, piccoli proprietari che il regime sovietico considerava nemici del popolo, oppositori della collettivizzazione. L’esproprio fu inevitabile. La fame fu inevitabile. Sua madre, vedova (il padre era morto giovanissimo in un incidente di caccia) si ammazzò di lavoro per tirare avanti. Nonostante questo, Solženicyn sposò la causa comunista, vedendo in essa una possibilità di maggior pace sociale. Era un sognatore.
Il sogno fu rovinato dall’incubo rappresentato dalla figura di Stalin e dalla realtà di un regime totalitario che con Marx non c’entrava assolutamente niente. Solženicyn visse male il patto fra Urss e Germania nazista, e bene la guerra per abbattere Hitler (il nostro, volontario, fu un eroe di guerra) ma l’esperienza bellica lo pose nel cuore della sua amata Russia, un cuore fatto di semplicità e di passione malinconica. Una cosa vera, spontanea, naturale dalle suggestioni ben superiori a quelle artificiali dell’idea per cui aveva combattuto. Solženicyn si convinse che la gente non meritava un regime tanto cinico e ottuso. Per questo sposò la causa ecclesiastica. Divenne un fedele sincero dell’ortodossia cristiana, senza rendersi prigioniero degli orpelli dogmatici. A lui interessava il substrato. Divenne un umanista umanitario.
La fama gli arrivo con Arcipelago Gulag, ovvero una denuncia serrata sull’inumanità dei campi di concentramento staliniani, in uno dei quali fu condannato a otto anni (dal 1945) per aver scritto male di Stalin. Il testo principale fu stampato all’estero, fece conoscere esplicitamente i gulag (lo farà più tardi anche Varlam Salamov – I racconti della Kolyma – con maggiore fisicità) ed ebbe un grande successo commerciale, sino ad elevare l’autore al Premio Nobel nel 1970 (l’Urss gli impedì di andare in Svezia), ritirato nel 1974 (Solženicyn subì l’esilio dalla Russia, vi ritornerà solo nel 1990). Ecco la motivazione del premio:
“Per la forza etica con la quale ha proseguito l'indispensabile tradizione della letteratura russa”.
Non pochi hanno ritenuto che il Nobel gli fu dato anche per motivi politici. Solženicyn era un dissidente illustre e la sua testimonianza gettava discredito sull’Unione Sovietica, abbatteva il mito della terra per eccellenza del genere umano. Questo discredito era intollerabile. Vi si accodò anche buona parte del nostro PCI (anche il nostro presidente Giorgio Napolitano fu della partita).
Solženicyn scrisse moltissimo, soprattutto saggi, fra cui il più vivo e splendido per senso civile è Vivere senza menzogna. La sua è una scrittura libera, quando mai aderente alle cose e fedele alle riflessioni profonde. Sollecitato, rispose in modo originale alle domande riguardanti la differenza fra zarismo e stalinismo. Di solito il secondo è considerato nient’altro che la continuazione del primo. Solženicyn afferma invece che lo stalinismo è molto più tremendo dello zarismo. Si riferiva in particolare alla grande crisi ucraina definita “holomodor” (1929-1933) con milioni di morti per fame, provocata – e questo è certo – da Mosca, con le sue richieste di rinunciare ai beni privati e portarli all’ammasso. Ma secondo molti storici l’esagerata provocazione moscovita non fu dettata da crudeltà o cinismo, bensì da incapacità governativa. Pochi paesi, Italia non compresa, riconoscono la versione di Solženicyn.
Per altro, l’intellettuale russo, una volta aperti gli occhi, si spese sempre, con tutte le sue forze, per la fratellanza umana. Erano gli insegnamenti religiosi a guidarlo. Era il desiderio di morale assoluta a sorreggerlo. Da qui ricavava la forza per far valere le sue ragioni. Ragioni che sono nel cuore dell’uomo, e che solitamente, in questa civiltà novecentesca, vengono prese troppo poco in considerazione. La sua voleva essere a tutti i costi un’utopia realistica. Voleva essere eutopia. Solženicyn la perseguì: ecco la sua grande lezione di vita. Ecco la dignità vera dell’uomo, riscoperta, evidenziata.
Dario Lodi
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