Mi piace immaginare che il mio amico Dario sia ancora dietro di me a darmi consigli (più che consigli ordini) a far si che io cresca e possa continuare il suo operato nella divulgazione della cultura (non ci riuscirò mai). Ma a questo proposito ho trovato un suo scritto e ve lo propongo:
«Quando l'Agnello aprì il settimo sigillo, nel cielo si fece un silenzio di circa mezz'ora e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e furono loro date sette trombe»
(Apocalisse, 8,I frase che apre il film)
IL SETTIMO SIGILLO (1957) di Ingmar Bergman, con Max von Sydow (il cavaliere), Nils Poppe (lo scudiero) e Bengt Ekerot (la morte). La storia si svolge nel Medio Evo, in un anno imprecisato. Vede il ritorno del cavaliere Antonius Block in un paese imprecisato del nord Europa. Porta con sé il fido scudiero Jöns. Allo sbarco trova ad attenderlo la morte per portarlo con sé. Il cavaliere la sfida a scacchi per prolungare la sua presenza sulla terra. L’escamotage gli consente d’incontrare parecchia gente disperata, atterrita dall’idea di dover morire. Solo una famiglia appare serena, intenta a vivere la propria vita. Il cavaliere la salverà dall’implacabilità della morte che poi seguirà fieramente rassegnato. Il film è tratto da una pièce teatrale scritta dallo stesso Bergman due anni prima, nel 1955, intitolate Pittura su legno. La produzione, che non credeva nel progetto, gli diede un mese per girarlo. Nonostante il poco tempo a disposizione, Bergman realizzò un autentico capolavoro, grazie anche alla straordinaria fotografia di Gunnar Fischer (un bianco e nero semplicemente strepitoso, la vera anima del film).
Il cavaliere vuole credere a Dio e conta su una salvazione, su un premio per le sue imprese nella Crociata, ma di fronte alla morte gli sorge un dubbio atroce, si sente abbandonato e pensa che tutto sia inutile, che il mondo sia solo un’invenzione dell’uomo. L’angoscia diventerà padrona della sua coscienza.
La partita a scacchi con la morte, tuttavia, lo farà in parte ricredere, dandogli una personalità tale da poter addirittura sfidare la morte in persona e farle segnare il passo. Questa personalità definisce l’importanza dell’essere umano, capace di sopravvivere da solo, senza chiedere la mano benevola del dio medievale, senza credere – decisione incredibile ai tempi – nella provvidenza divina.
Per la verità, nel prendere questa decisione narrativa, Bergman aggira il problema esistenziale, dando spazio al buonismo dell’animo umano, alla spiritualità vissuta nella sua sana utopia (la famigliola che pensa a creare una vita vivibile, evitando la cappa della riflessione mortale). Il regista oppone il terrore di una fine ignominiosa con la gioia di un’esistenza alla giornata. In fondo, si tratta di una forzatura, ma è una forzatura utile alla ricerca di una filosofia di vita naturale, senza gli eccessi macabri di una fantasia tremebonda. Il mondo appartiene all’uomo non a Dio. Questo il messaggio finale di Bergman. Sta solo all’uomo migliorarlo.
È un messaggio grandioso che riempie di orgoglio il cuore del cavaliere ed è un prezioso insegnamento per l’umanità che non può e non deve affidarsi a una trascendenza che è soltanto di sua invenzione. Alla stessa sono stati vari mandati per sottrarsi a responsabilità dirette (come si farà con certa scienza moderna: Bergman fa intendere chiaramente che nessuna frase fatta può essere accettata, che nessuna frase fatta è utile; utile è il dubbio e la fiducia in se stessi, purché alimentata da seri impegni intellettuali).
Estremamente simpatico è il personaggio dello scudiero che come Sancho Panza (il cavaliere adombra, in qualche modo, la figura di Don Chisciotte) è attaccato alla terra, è pratico, è indifferente a dio e alla morte, si fa beffe dell’uno e dell’altra con il suo comportamento distaccato da tutto, attaccato invece a ogni lembo di vita con un materialismo sincero e vorace. Infine c’è la presenza di Bibi Andersson (per la prima volta sullo schermo): una presenza discreta eppure solare. La giovane attrice (bravissima) fa sentire il potere occulto della femminilità, autentica chiave che apre le porte della Città Ideale. La femminilità regala una ragione di vita a testa alta.
Due parole anche su Ingmar Bergman, svedese, certamente fra i maggiori cineasti del XX secolo. Unico a portare sullo schermo temi esistenziali con tanta intensità ed efficacia. Con tanta incisività. Impossibile resistere alla sua capacità di suggestionare gli occhi e la mente, avvalendosi di superbi attori teatrali e di tecnici eccezionali. Qui la fotografia è di Gunnar Fischer(collaborerà molto con Bergman) ma spesso il regista si avvarrà anche di Sven Nykvist, considerato giustamente il più bravo nel suo settore (anche Hollywood lo richiederà). La fotografia nei film di Bergman è davvero essenziale. Più di qualunque dialogo è in grado di “spiegare” la vicenda dal di dentro, tramite la creazione di atmosfere semplicemente perfette (ovviamente dietro indicazioni del regista). Il cinema di Bergman, va detto, raggiungerà vette assolute con Il posto delle fragole, Il volto, Persona, Sussurri e grida (capolavoro fra i capolavori), Fanny e Alexander (1982, suo ultimo film, a colori). D’altro canto, bisogna ammetterlo, non dimostrò pari bravura negli sceneggiati televisivi (Scene da un matrimonio, sei episodi per un totale di oltre 300 minuti; esiste anche una versione cinematografica di 167, ripetitiva, statica): Bergman per funzionare ha bisogno di storie semplici che lui provvede a complicare con intelligente e vissuta dinamicità interiore, profonda, esemplare.
Dario Lodi
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