Viviamo in tempi di grandi cambiamenti complessi, in una nuova società “liquida”, cioè priva di strutture, di elementi fissati e di sicurezze, secondo la definizione di Bauman; è perciò necessario riuscire a sviluppare quelle capacità di adattamento e di resilienza, di creazione di nuove idee capaci di fronteggiare un mondo caratterizzato sempre più dall’incertezza. In quest’ottica, emerge il bisogno di mantenere competenze professionali di accompagnamento alla costruzione di nuove modalità di partecipazione sociale.
L’Educatore socio-pedagogico e il pedagogista, che operano prevalentemente nel campo dell’educazione non formale, possono contribuire alla co-costruzione di un nuovo modello di welfare, all’interno del quale, ogni persona può trovare una propria via di sviluppo, di crescita e di autorealizzazione. Anna Lazzarini definisce l’Educatore socio-pedagogico un vero e proprio “tessitore di contesti” «che favorisce lo sviluppo, il riannodarsi, la ripresa di relazioni fra i vari soggetti individuali e collettivi impegnati nella crescita educativa e sociale»[1]. Egli è chiamato a essere un protagonista decisivo, un “operatore primario della contemporaneità”[2] poiché il mandato sociale che egli riceve appare oggi urgente e di portata decisiva.
Per questo motivo le professioni educative, costituite da un’interconnessione tra saperi disciplinari e ambiti di intervento alquanto diversificati, presentano grandi potenzialità, capaci di diventare osservatorio privilegiato delle metamorfosi socio-culturali in corso e in continua evoluzione. Le figure socio-pedagogiche, attraverso lo sviluppo di un pensiero di tipo riflessivo e un’attitudine all’apprendimento permanente per tutto l’arco della vita, possono acquisire e consolidare: conoscenze culturali e scientifiche, abilità progettuali e competenze relazionali. L’apprendimento adulto, centrato sul concetto di lifelong learning, secondo il pensiero di Kolb presuppone sempre un processo di trasformazione dovuto dall’esperienza, che è la base più ampia a cui rapportare i nuovi apprendimenti: l’adulto perciò ha necessità di prendere coscienza di ciò che si trova ad imparare. Il processo trasformativo porta ad un senso modificato e rafforzato del Sé e dà vita ad azioni di cambiamento nelle relazioni e quindi nelle organizzazioni e nel contesto di cui si è parte; si attiva così un’azione che incide nei sistemi politici, economici e culturali e conduce a un’operazione sociale collettiva. Attraverso una formazione continua per tutto l’arco della vita, i soggetti -unici ed irrepetibili, secondo una visione personalista- sono in grado di divenire, in modo intenzionale e consapevole, agenti di cambiamento e protagonisti di un agire sociale orientato verso il bene comune da intendersi come fine collettivo.
[1] A. Lazzarini, Il lavoro educativo e sociale come cura della complessità in «Nuova Secondaria»,, Edizioni Studium, Roma, Novembre 2018, Anno XXXVI, pp. 33-42. [2] S. Tramma, L’Educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci Editore, Roma 2008, p.7.
La pratica autoriflessiva insieme alla ricognizione di sé, alla riappropriazione dei saperi esperienziali, ricopre dunque un ruolo di centralità negli apprendimenti e del loro riflettersi nella quotidianità del lavoro e dei servizi. L’agire di tipo riflessivo, secondo Schön è un costrutto epistemologico e un processo decisionale simultaneo, intenzionale e motivato, che porta il professionista a porsi in “conversazione riflessiva con l’azione” mentre essa si svolge. Egli così ha la capacità di operare in qualità di ricercatore e quindi, grazie a tale atteggiamento, accrescere conoscenze e competenze.
Si ritiene che il punto di partenza e il fattore centrale capace di dare slancio a questo processo sia la centralità della persona, unica, irripetibile, responsabile e libera, che deve agire con intenzionalità e logos e si trova a dover affrontare un processo trasformativo evolutivo. L’educatore, tramite un agire intenzionale, è colui che orienta professionalmente una relazione verso il cambiamento e l’inclusione, per il miglioramento della qualità della vita del soggetto e lo sviluppo della comunità, intesa come gruppo di persone che camminano e vivono insieme condividendo uno scopo.
Può dare un contributo notevole nel favorire un’integrazione dinamica e una connessione strategica fra i molteplici luoghi della socializzazione e dell’educazione: da quelli consapevolmente formativi -quali la scuola, la famiglia, i servizi, gli enti associativi-, a quelli solo informalmente formativi che attraverso molte offerte assicurano risposte “personalizzate” alle esigenze individuali; grazie alla sua competenza e alla sua esperienza, è in grado di fornire un contributo importante affinché famiglia, scuola, istituzioni locali si impegnino a valorizzare la propria specificità e funzione e a condividere un’ipotesi di progettualità, attivando un modello di integrazione, definito da F. Frabboni e F. Pinto Minerva «sistema formativo integrato e permanente»[1].
In tutto questo processo, le Scienze Pedagogiche hanno la facoltà di rappresentare un punto di riferimento scientifico e culturale che fornisce occasioni formative per favorire lo sviluppo di competenze in grado di innervare di profonda autorevolezza educativa tutti gli ambiti del quadro socio-politico di una nazione. Educare significa quindi contemporaneamente lavorare su se stessi, con l’altro e con la comunità, in tutti gli ambiti della vita.
Alberto Di Monaco
[1] Il pensiero di F. Frabboni - F. Pinto Minerva, contenuto nel Manuale di pedagogia generale, Laterza, Roma-Bari , 2002, è oggi riproposto da L. Perla - M. G. Riva, L’agire educativo, Editrice La Scuola, Brescia 2016, pp. 330-333.
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