Fin dal primo momento del pensionamento ho deciso di festeggiare ogni anno, il 12 Settembre, il mio compleanno a Locri, per costruire un immaginario ponte tra la mia prima e più importante Itaca e il mio attuale essere cittadina del mondo nel Mondo. E l’ho festeggiato quasi sempre con gli amici in un bar nei pressi della casa dove sono nata, in via Trieste, proprio davanti a quello che sarebbe stato il mio Liceo Classico fino ai sedici anni, periodo della frattura con il mondo che fino ad allora era stato il mio e l’ingresso in quello bolognese prima e milanese poi. Non avrei mai immaginato, allora, che da quella frattura avrebbe preso il via anche una potente forza centrifuga che, in seguito, mi avrebbe portata a percorrere all’estero le tante altre strade del mio mondo affettivo e relazionale. E questo fino al 2020 quando, alla presentazione del mio ultimo libro Sulla scacchiera della vita nella Corte del Comune di Locri, sono stata ripagata del mio fedele amore per la terra natale dall’abbraccio corale della cittadinanza accorsa numerosa a festeggiare contemporaneamente l’uscita del libro e il mio compleanno. E poi la brusca cessazione del piccolo rito annuale del festeggiamento per il persistere ostinato della pandemia e per la morte improvvisa per infarto di mio fratello prima e di mio marito dopo. Da allora non me la sono più sentita di organizzare e festeggiare alcunché e mi sono fermata. Fino al giorno 11 Settembre di quest’anno, quando la mia amica di sempre, Maria Spina, mi ha invitata a partecipare in Planteria alla serata sul Gelso moro di cui nella struttura si sarebbero celebrati i cento anni di vita. «Perché no? – mi sono detta. – In fondo si tratta sempre di un compleanno, e molto più importante del mio.» Sulla via ho incontrato un’altra amica di sempre, anche lei, come me, provata duramente dalla vita, e ci siamo avviate insieme verso l’evento. Stava imbrunendo e, tra il profumo del mare e quello delle erbe aromatiche della Planteria, si stava creando in me un mix magico di emozioni che mi arrivavano a ondate lente ma sempre più coinvolgenti a sciogliere il nodo della stasi che da tempo mi aveva paralizzato sia la mente che il cuore. Pasquale Giurleo, in veste di presentatore, con la voce vellutata di un genitore che parla commosso del proprio figlio bambino, ci introduceva alla storia del Gelso in questione, piantato proprio 100 anni prima da un abitante della zona che lo aveva addirittura battezzato col proprio nome, Francesco, e lo aveva visto diventare, da piccolo ed esile, tanto grande e frondoso da ricoprire con i suoi lunghi rami gran parte del terreno circostante. E io già lo sentivo fratello, quel Gelso, inserito, come me e come tutti gli altri esseri viventi, nell’eterno evolversi della Vita che a tutto resiste e su tutto vince. Ed ecco le voci, pur esse commosse, di tre giovani attori intenti a leggere l’episodio delle Metamorfosi di Ovidio in cui addirittura l’albero mutava il colore dei suoi frutti da bianco a moro perché intriso del sangue di Piramo e Tisbe, i due innamorati osteggiati dalle famiglie in ambito mediterraneo né più né meno dei coetanei veronesi Giulietta e Romeo. E già sentivo l’emozione che si faceva larga strada in me con la voce degli Studi Classici che mi hanno plasmata e che non ho abbandonato neppure per un istante nel corso di tutta la mia esistenza. E che? Non lo sapevo che la Vita si presenta sotto molteplici aspetti, ma che quello che più la rende pregna di significato è proprio il suo alternarsi con la Morte? E che? Non lo sapevo che le due sono inscindibili e che dall’una nasce necessariamente anche l’altra? Ed ecco, sotto i rami fronzuti del Gelso, prendere la parola lo storico Vincenzo Cataldo che, con la voce chiara dello studioso innamorato dei suoi Studi, si è messo a parlarci della lunga strada percorsa dal Baco della Seta che, millenni fa, partendo dall’antica Cina, è giunto fino alle campagne della Locride e ha trovato il suo nutrimento nelle foglie dei Gelsi che intanto avevano colonizzato le campagne nostrane in cui l’Ulivo non era ancora comparso. E sulla piana di Gerace veniva poi sbozzolato mentre il suo filo luminoso veniva raccolto e poi inviato per la lavorazione nelle filande di Napoli. E poi, nell’alternarsi di vicende storiche poco favorevoli all’economia del Sud, ecco la cessazione di quella come di altre attività locali e regionali e poi la stagnazione di tutto. In pratica, in grande, la stessa storia della mia piccola esistenza, che ha iniziato il suo viaggio in un posto, lo ha portato avanti in tanti altri e poi, per avvenimenti avversi, si è fermata, bloccata nel suo slancio vitale. Tutto finito, dunque? Tutto da archiviare come morto e sepolto? No, perché niente mai finisce del tutto: e ora, a San Floro, una cooperativa di giovani sta riprendendo in mano la lavorazione della seta, partendo dalla ricchezza dei gelsi della nostra terra che i bachi sembrano amare in modo particolare. La notte era intanto avanzata dolcissima sulle teste di tutti noi alla Planteria e, tra gli eucalipti, occhieggiava alta una luna tonda tonda che riempiva di striature argentate il mare sottostante e si allargava luminosa anche nel fondo scuro del mio cuore. C’era una tale, impalpabile letizia intorno che persino Grifone e Mate, i due giganti di cartapesta che fino ad allora se ne erano stati fermi a fianco del Gelso, si erano messi a danzare, come abitualmente fanno in occasione delle feste cittadine. Quanto a me, sono tornata a casa leggera come quella serata del 2020 e con la stessa voglia di vivere e ringraziare la vita che ancora mi scorre dentro ed è ancora degna di essere celebrata in ogni suo momento ed evento. E quando, il giorno dopo, mio figlio, un po’ preoccupato, mi ha chiamata da Milano per sapere se avessi festeggiato in qualche modo il compleanno, gli ho risposto: «Sì, alla grande: in Planteria in compagnia di un Gelso moro, di due Giganti di cartapesta, del vicino mare, della luna piena, e di tanti amici ignari del miracolo che mi stava spingendo a vivere in modo pieno e grato quel che mi resta della vita.»
E sentivo che, sotto la luce della luna piena, Piramo e Tisbe mi riportavano al canto di quell’Amore che mai non muore, ed i Giganti a quella danza che celebra la vita ed il Gelso moro alla Natura che saggia muore per ritornare poi a vivere ancora.
Luisa Ranieri
Un ringraziamento a Metis
Comments