. Le immagini del cinema di Fellini
In questo articolo, appositamente non ho voluto fare alcun riferimento alla biografia del regista, ma ho soltanto cercato di approfondire la conoscenza della sua essenza di artista, poliedrico, visionario e profondamente radicato alla storia e alla cultura italiane. E per comprendere la sua “poetica”, è doveroso citare e sottolineare subito un concetto chiave sul quale si è basata la sua intera esperienza cinematografica: la necessità della libertà delle immagini, quella stessa di cui sono pregni i sogni.
Ce ne sono molte, prelevate direttamente dal percorso di vita del regista, che hanno connotato tutti i suoi film, e ancora non si sa se questo è accaduto consapevolmente oppure no. La prima, non per importanza, ma solo per appartenenza, è sicuramente quella della sua città natale: Rimini. In realtà il regista non vi si sentiva particolarmente legato e non amava tornarci; lui stesso l’ha definita una dimensione della memoria dalla quale ha tratto numerose ispirazioni per le sue opere (pensiamo ad es.ad Amarcord del 1973), ma proprio per questo Fellini provava un certo imbarazzo. Ciò che più lo affascinava di Rimini, era la nebbia che scendeva fitta d’inverno e che la faceva scomparire quasi completamente. La nebbia rendeva tutto e tutti invisibili e questo aspetto lo eccitava moltissimo, perché in quei momenti si manifestava prepotentemente la sua proverbiale visionarietà, quella tendenza ad interpretare in maniera fantasiosa la realtà che lo circondava.
Rimini però non era l’unica città che lo stimolava in questo senso: Roma la superava ed era il luogo più amato da Federico. Lui stesso la definiva una grande madre “affettuosa e severa”. Roma era anche una condizione di vita per lui, per quelle profonde contraddizioni che la città ha saputo sapientemente amalgamare: carnalità e religione. Fellini è approdato nella capitale italiana giovanissimo, nel 1938, e subito si è accorto che la città che aveva sempre immaginato, in realtà non la corrispondeva affatto, anzi era una realtà molto diversa da quella imperiale e papale che si aspettava; al suo posto aveva trovato una città africana, a causa del gran caldo e dell’inestinguibile fame del popolo, appagata nelle trattorie all’aperto. Roma, agli occhi del regista, appariva come una “città sdraiata”, piattaforma ideale per voli fantastici della mente; una “grande madre indifferente”, che nulla chiede e nulla si aspetta, pronta ad accogliere chiunque vi approdi, e congedare chiunque voglia andarsene. Roma, città carica di storia e tradizione, ma che nascondeva un che di primordiale, in certi suoi ruderi che apparivano più come reperti fossili.
L’immagine però più emblematica, che ha ispirato la maggior parte della cinematografia di Fellini, è stata sicuramente il circo. Fellini lo ha scoperto da bambino e ne è stato completamente rapito: al circo si sentiva a suo agio, quasi più che a casa sua, e non appena sono esplose intorno a lui tutte le attrazioni dello spettacolo circense, ha avuto l’impressione che era proprio lui la “star” attesa, che tutti gli acrobati e gli artisti lo stessero aspettando (come Pinocchio nel teatro dei burattini di Mangiafuoco). Finchè è rimasto piazzato sotto casa sua, tutti i giorni vi si recava e rimaneva costantemente assorto a guardare tutte le prove e tutti gli spettacoli, sparendo, ogni tanto, per giorni interi da casa sua.
Di tutti gli artisti del circo Federico era profondamente attratto dal clown: per il regista, questa figura incarnava i caratteri della creatura fantastica, il lato irrazionale dell’uomo, quella componente dell’istinto che ci mette inevitabilmente in contrasto con l’ordine superiore, insito in ognuno di noi. Il clown ha rappresentato per Fellini lo specchio in cui ciascun uomo può vedere riflessa la sua buffa e grottesca immagine; come un’ombra è sempre presente, ma ciascun uomo cerca di nasconderla, dando maggior importanza e risalto alla parte razionale e illuminata della propria realtà. Il prototipo di clown cinematografico, per antonomasia, secondo il regista è stato l’inarrivabile Totò, il quale, come tutti i grandi clown, era portavoce della contestazione totale. L’attore esaltava tutti gli aspetti e le peculiarità della storia e dei caratteri squisitamente italiani, dilatandoli al massimo: la fame, la miseria, l’ignoranza, il qualunquismo del piccolo borghese, la rassegnazione, la sfiducia, la viltà; secondo Fellini, Totò è stato l’unico capace di materializzare con esilarante eleganza l’eterna dialettica tra l’abiezione e la sua negazione.
Un altro mondo, che ha profondamente influenzato la produzione felliniana, è stato quello del fumetto: Federico sin da giovanissimo ha dimostrato una grande curiosità nei suoi confronti. Gli aspetti che più lo affascinavano, era il modo tipico del fumetto di inquadrare le immagini in una cornice, la sua scansione narrativa, il salto d’immagine da un quadretto all’altro, l’affidare al lettore il compito di colmare i vuoti, di rendere dinamica la staticità. E al mondo del fumetto probabilmente deve molto il cinema muto (quello di Chaplin, di Buster Keaton, etc). Anche il cinema di Fellini si può dire che abbia la propria matrice nelle strisce fumettistiche; dal fumetto Fellini ha acquisito lo stile, l’atmosfera e la dinamica bloccata dalla rigidità: le sue pellicole infatti sono piuttosto stilizzate, con inquadrature fisse e pochi movimenti di macchina.
Lui stesso è stato un disegnatore professionista e sino al 1948 ha accompagnato la sua attività di sceneggiatore a quella di vignettista. Da regista, disegnava abitualmente le scene dei suoi film. E’ stato inoltre ideatore, per i disegni di Milo Manara, anche di due fumetti: Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet. Il primo è nato dalla sceneggiatura quasi omonima, Viaggio a Tulun, che però non ha mai concretizzato come pellicola; il fumetto è stato pubblicato, a partire dal 1989, sulla rivista a fumetti Corto Maltese. Il secondo, nato da un’altra compiuta sceneggiatura felliniana, che però non è si è poi più tradotta in immagini, ha visto la luce nel 1992 sulle pagine della rivista Il Grifo.
. Gli incontri più importanti di Fellini
La vita e la carriera di Federico Fellini, sono stati contemporaneamente e straordinariamente segnati da incontri con personalità che hanno dato un valore aggiunto sia alla sua esperienza di vita, che a quella professionale.
Quello più importante è avvenuto con colei che è diventata poi sua compagna di vita, oltre che musa ispiratrice, e personaggio principale in alcuni suoi memorabili film: sto parlando dell’attrice Giulietta Masina. Il loro rapporto è stato indubbiamente inossidabile, tanto che il regista ha creduto che fosse predestinato, addirittura preesistente prima del giorno del loro incontro. Si sono conosciuti in radio, nel 1942: Giulietta dava voce a Pallina, protagonista delle radio-scene di straordinario successo, scritte da Federico. Il loro rapporto privato ha sempre viaggiato parallelamente con quello professionale: la loro vita insieme è stata fonte di continua osservazione per il regista: e così presto ha compreso che Giulietta era l’attrice congeniale alle sue intenzioni e al suo gusto artistico, in quanto aveva esattamente la mimica, le cadenze e i modi deliziosamente clowneschi; altrettanto è stata considerata dal consorte una creatura misteriosa, riflesso di una struggente nostalgia di innocenza.
Altro incontro fondamentale per Fellini è stato quello con l’attore Marcello Mastroianni: egli ha rappresentato per il regista l’amico fedele, devoto e saggio. I due si frequentavano pochissimo fuori dal set, e forse questo è stato il segreto della loro amicizia, che non aveva pretese, obblighi, condizionamenti, regole o confini. Fellini amava molto lavorare con Mastroianni, perché era una persona intelligente, disponibile e delicata; e come attore, riusciva ad entrare nei suoi personaggi in punta di piedi, senza chiedere nulla, quasi senza leggere il copione. L’attore non era avvezzo alle bizze da primadonna e sapeva chiedere cose solo strettamente indispensabili: poteva di certo considerarsi l’attore ideale per i film di Fellini, e forse l’attore ideale per qualsiasi regista.
Un ultimo incontro, degno di essere menzionato, è stato quello metaforico tra Fellini e la psicanalisi di Jung: la lettura di alcuni suoi testi, ha rappresentato per il regista una gioiosa rivelazione, anzi un’entusiasmante e straordinaria conferma di qualcosa che, tuttavia gli sembrava di aver già immaginato. L’umiltà scientifica di Jung di fronte al mistero della vita, lo rendeva simpatico al regista, perché il pensiero del filosofo non aveva la pretesa di diventare una dottrina, ma voleva solo suggerire un nuovo punto di vista, un diverso atteggiamento che può arricchire ed evolvere la personalità di ciascun individuo, verso un comportamento più consapevole, più aperto, volto a riconciliarsi con le parti rimosse, frustrate, mortificanti e malate di se’. Jung, secondo Fellini, consentiva agli uomini di immaginare, di sognare: ciò che il regista ha ammirato maggiormente era il fatto che il filosofo sia riuscito a far incontrare scienza e magia, fantasia e razionalità: questo consente ad ognuno di attraversare la vita abbandonandosi alla seduzione del mistero, con il conforto di sapere che è assimilabile alla ragione.
. Il processo creativo del regista Fellini
Ogni volta che Fellini cominciava a girare un film, assumeva sempre l’atteggiamento di un fuggitivo: solo quando si sentiva vinto dall’odio, cominciava le riprese. La sua era una creazione ispirata a segni di profonda antipatia, in preda ad uno stato di costante e infastidita rabbia. Alla fine del lavoro, il regista era costretto ad allontanarsi dal suo film; infatti, con le sue “creature” non ha mai avuto un buon rapporto. Questo processo era caratterizzato da un atteggiamento dettato dal complesso del criminale: il regista non voleva lasciare tracce e testimonianze di tutto ciò che un suo film gli costava; doveva restare solo il film, nudo e compiuto.
Ogni film di Fellini è indubbiamente una creatura mutevole, cangiante. Il primo contatto che aveva con esso, avveniva tramite l’immaginazione: una visione, la cui purezza affascinava il regista. Poi subentrava la fase caratterizzata dall’immagine pura, in cui prendeva il via la storia: e in quel momento si avviava anche la parte più burocratica, in cui si stipulava il contratto e venivano coinvolti i legali delle reciproche parti. La creatura così iniziava a rivelare il suo carattere losco, ma rimaneva ancora accattivante. Questo era il momento in cui si incassavano i soldi e ciò costituiva una magra consolazione per Fellini. Ed ecco che si affacciava a seguire la terza fase del processo creativo: quella della stesura della sceneggiatura, ed era quello il punto in cui il film si avvicinava e si allontanava in maniera sincopata. Apparivano nitidissime al regista le prime immagini, stimolate da pretesti e occasioni non riconducibili ad episodi reali. Poi quelle immagini volavano via, nel momento in cui bisognava passare alla scrittura del copione; la sceneggiatura ha un linguaggio letterario, quindi un ritmo completamente diverso rispetto il linguaggio cinematografico. Le parole facevano nascere altre immagini, deviano il fine che l’immaginazione cinematografica persegue. Terminata la scrittura, il film entrava in una sorta di limbo: così si avviava alla fase preferita del regista, quella in cui gli si apriva ogni possibilità, e dove si poteva confrontare con qualsiasi incognita. Il film poteva assumere completamente un aspetto diverso, da quello che inizialmente aveva. Allora il regista si sentiva come uno studente monello, alla continua ricerca, era il momento in cui Fellini avrebbe voluto vedere tutti i visi del pianeta. Cercando visi, corpi e gesti tra gli sconosciuti, il film cominciava ad esistere come mai prima di allora, nonostante lo facesse a lampi, sprazzi da cui il regista si lasciava sedurre; si presentavano a lui innumerevoli soluzioni, diverse e opposte anche per un solo personaggio.
Questa gioia presto veniva spenta da altro: lo scontro con il gelido tabellone del diario di produzione, dove tutto era programmato e deciso con uno snervante anticipo, che disperdeva ogni fantasia. Questo bisogno che il film aveva di trasformarsi in qualcosa di esatto e costellato da scadenze, faceva perdere al regista ogni fiducia in esso. Il film gli sembrava dunque mutato in un’operazione finanziaria, difesa strenuamente dalla direzione della produzione. E così il regista si arrendeva rovinosamente e cominciava a montare in lui il rancore, la rabbia, la voglia di fuga.
Quando la diffidenza verso questa creatura, che sembrava a Fellini del tutto snaturata e che sentiva non appartenergli più, diventava totale, allora lì si dava il via alle riprese. Ad un certo punto, dopo l’inizio della lavorazione, il film cominciava a dirigere il regista. E in tutto questa nuova fase si creavano sodalizi, amicizie, si facevano scoperte; succedevano molte cose dietro ciascuna inquadratura. Ad un certo punto il film finiva, ma qualche giorno prima che si concludessero le riprese. Il regista si accorgeva all’improvviso che non gli importava più nulla di quel baraccone delle meraviglie che era il set. Entrava in un teatro di posa che era stato suo, e c’era un’altra troupe che stava montando il set di un altro film: il regista dunque si sentiva come se quella gente stesse violando la sua dimensione. Arrivava contemporaneamente la fine di quel lavoro e la fase della moviola, dove il rapporto tra il regista e il suo film diventava privato e personale. Infine, si passava alla prima visione personale del film: dopo il lavoro con il montatore, il risultato era lo schermo con un filmato intero. Un mezzo cordone ombelicale tratteneva ancora vicini il regista e il film: è quello l’istante l’artista prova ad andarsene e ad evitare di guardare la sua creatura dritta in viso. E l’interesse del regista verso il suo film, andava scemando completamente.
Fellini finiva ogni suo film con sempre più pignoleria, per poi distaccarsene velocemente. Lo abbandonava con un certo fastidio: il regista non rivedeva mai i suoi film in una sala cinematografica pubblica, perché era come se venisse assalito da un certo pudore, si trovava nella condizione di chi non vuole vedere un suo amico fare cose su cui non si “trovava d’accordo”.
. I riconoscimenti al regista Fellini: bilanci di una fulgida carriera
Il quinto (forse più importante) premio Oscar che Fellini ha ricevuto, quello alla carriera, è arrivato il 20 gennaio 1993, giorno del suo settantatreismo compleanno. Ed ha sugellato la sua carriera di oltre quarant’anni di cinema, in cui si sono alternati momenti di gloriosa fama a momenti di scarsi apprezzamento e considerazione delle sue opere.
Fellini è stato tanto esaltato quanto distrutto dalla critica, così come è stato abbandonato dal pubblico, in diversi momenti della sua vita e della sua carriera, soprattutto negli ultimi anni. Che piacesse o meno però, il regista è diventato un’istituzione. Anche se ha rischiato di rimanere disoccupato a causa della crisi del cinema contemporaneo, comunque non ha mai smesso di praticare il suo mestiere, che tanto gli piaceva e tanto lo aiutava a rimanere giovane. Il problema vero però era rappresentato dall’opinione pubblica, che ha preferito affermare che Fellini continuava a ripetersi nei suoi film. In realtà in tutte le sue opere il regista ha rivelato il suo profondo scoramento per un vuoto che ha sempre cercato di mascherare con una certa forma di grottesca allegria, o con il lirismo, ma che consapevolmente sapeva di non riuscire mai a colmare. Fin dal suo primo film, in co-regia con Alberto Lattuada, Luci del varietà (1951) è emersa la meta principale di tutte le sue produzioni, di tutto il suo itinerario artistico e cinematografico: un’imprescindibile italianità. Ed è stata proprio questa sua intenzione di raccontare la storia e le abitudini del nostro popolo, la chiave vincente che lo ha portato a vincere i suoi quattro Oscar come “miglior film straniero”, con: La strada e Le notti di Cabiria, pellicole di inizio carriera che lo hanno portato al successo; e con 8 e ½ e Amarcord, opere della consacrazione e della maturità artistiche. In tutta la sua carriera Fellini non ha mai travalicato i suoi orizzonti, cioè quelli “provinciali” ma nel miglior senso del termine. Tra Rimini e Roma, entrambe ricostruite e reinventate in studio, si è sempre mosso in un’altalenante avventura che, partendo dai luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza come radici originarie di ogni emozione e fantasia, si è incanalata nel solo universo di Cinecittà, fonte inesauribile delle sensazioni e delle riflessioni private del maestro. Il suo esordio vero come regista assoluto, è avvenuto nel 1952 con la pellicola Lo sceicco bianco, con Antonioni coautore del soggetto, Flaiano coautore della sceneggiatura e una grande interpretazione di Alberto Sordi, attore protagonista. Con questo film, Fellini ha inaugurato - grazie anche alla collaborazione con Ennio Flaiano - uno stile nuovo, estroso, umoristico, una sorta di realismo magico, onirico, che però non viene subito apprezzato, e presto definito “fantarealismo”.
L’essere un “descrittore di costume” non è mai stato un limite per Fellini, bensì la ragione della sua unicità nel panorama cinematografico internazionale. Attraverso il costume, la sua Italia si è memorabilmente popolata di figure che la rappresentano con varietà e verità autentiche, non meno di quel lontanissimo neorealismo, dal quale lui stesso proveniva (se si pensa che ha partecipato alla stesura delle sceneggiature di Paisà e Roma città aperta di Rossellini, oltre che al fatto che conoscesse bene Luchino Visconti e Vittorio De Sica, tra i padri del cinema neorealista italiano) e se n’era allontanato. L’avanspettacolo, il fotoromanzo, il circo, la musica, la televisione e soprattutto il cinema sono i campi che Fellini via via ha percorso esplorandoli sempre come territori nuovi, seppur così intimamente radicati nel “costume italiano”. E’ stato affermato che la visione di Fellini, sia stata sempre pervicacemente personale; e che soprattutto in 8 e ½, il cinema di cui parla è spudoratamente il suo; o meglio è il cinema “all’italiana”, che comunque gli ha concesso di essere, forse, il più bel film sul cinema di tutti i tempi.
Fellini si è dimostrato un poeta egocentrico, ritirato forzatamente nel suo guscio, tanto sensibile alla voce della Luna, ma strenuamente chiuso alla voce della ragione; nonostante ciò gli dobbiamo un affresco della decadenza, rappresentato ne La dolce vita (1960) ad esempio. E se la sua famosa triade della metà degli anni ’50 (La strada, Il bidone e Le notti di Cabiria), appariva ancora immersa in un realismo “cicatriziale” di grandi ambizioni, nel trentennio successivo Fellini ha imboccato una strada più scoscesa, che lo ha portato ad esprimersi più liberamente, senza alcun impaccio ideologico (da Prove d’orchestra del 1979, a La città delle donne del 1980, fino al suo ultimo ed emblematico film La voce della Luna del 1990, dove ha diretto la “strana coppia” di attori, Roberto Benigni e Paolo Villaggio). Ciò che conta realmente, e che smentisce l’opinione corrente, è la raggiunta consapevolezza da parte di Fellini di essere stato capace di affrontare temi di maggior apertura e maturità civile, senza dover per questo rinunciare a sé e doversi misurare con tutte le sue ossessioni ed ambiguità.
Laura Carroccio
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