Durante una delle mie escursioni in campagna, alla ricerca di un buon soggetto, animale o vegetale, da osservare o fotografare, mi ritrovai nei pressi di una grande cascina abbandonata: grandi muri di infiniti mattoni rossi, alcuni erosi dal tempo, altri dai piccioni selvatici che li becchettano, consumandoli, alla ricerca di misteriose sostanze in essi contenute.
In questi muri si aprivano molte finestre: alcune chiuse da consunte imposte, altre aperte come occhi sulla campagna, tutte accentuavano il senso di solitudine e di abbandono del complesso. Ma qualcuno abitava quei locali: infatti la specchiatura nera di una finestra era parzialmente riempita da una sagoma biancastra. Puntando il binocolo mi apparve la forma netta di un uccello, un Barbagianni appunto (Tyto alba). Questo animale è un rapace notturno, dell’ordine degli STRIGIFORMI, come il gufo e la civetta, ma a differenza di questi, ha una colorazione pallida, anzi decisamente bianca sul petto e sul ventre, oltre al disco facciale a forma di cuore che appare allungato in senso verticale, a riposo, mentre si arrotonda repentinamente in caso di allerta, scostando in tal modo le piume dalle orecchie per facilitare l’ascolto e localizzare meglio eventuali prede o fonti di pericolo.
La colorazione del dorso è ramata o fulva, con macchie grigiastre e punti bianchi e neri. Non si direbbe molto mimetica, ma dato che il nostro barbagianni vive in anfratti bui e preferibilmente in costruzioni “umane” quali torri, granai, solai e case abbandonate, questo scarso mimetismo non rappresenta un problema . Infatti non risultano esserci predatori specifici di questo uccello tranne il solito uomo, ignorante per giunta, in quanto non sa che, come tutti i rapaci notturni il barbagianni ci libera costantemente da roditori e talpe alle volte infestanti case e orti.
I suoni emessi da questo uccello sono lugubri e cupi, altre volte invece sono grida intermittenti, quasi umane. Tutto ciò, unito al fatto di abitare nei ruderi e la colorazione pallida sono sicuramente all’origine delle storie di fantasmi di cui questo animale è protagonista. A tale proposito sembra che il nome volgare, Barbagianni appunto, derivi dell’unione delle parole barba (il barba è lo zio, nella parlata padana di un tempo), con Giovanni o Gianni, nome tra i più comuni. Il risultato è “ZIO –GIOVANNI”, in riferimento al caro estinto che si ripresenta occasionalmente come fantasma dalla finestra dell’abbaino.
Vero o no, resta il fatto che il povero STRIGIFORME è stato da sempre perseguitato come la civetta ed il gufo, quale portatore di sventura e come tale ucciso, senza appello!
Maschio e femmina sono identici, non esiste quindi DIMORFISMO sessuale.
La coppia è molto unita, ma a causa della riservatezza innata e dei nidi posti in luoghi di difficile osservazione, poco si sa dei costumi nuziali di questi uccelli. Una cosa pare certa: il maschio offre in dono alla femmina delle prede anche al di fuori del periodo riproduttivo , come a voler omaggiare la propria compagna per il solo fatto di esserci e non “per secondi fini”! Non costruisce un nido vero e proprio , ma bastano un po’ di paglia o stracci in un
luogo riparato e la deposizione può cominciare. Se il momento è propizio e le prede sono abbondanti, vengono deposte fino a 18 uova. La schiusa è differita in modo da poter nutrire i piccoli man mano che nascono , senza grosse rivalità tra gli stessi, anche se è inevitabile che, quando il numero di pulcini è elevato, la selezione naturale, come al solito, riporterà tale numero ad una misura accettabile. Tutto questo nonostante i genitori siano particolarmente solerti nel provvedere al cibo al punto da procurarne oltre il fabbisogno, facendolo così marcire nel nido! La tecnica di caccia è affine a quella di altri rapaci notturni: volo basso sulla campagna con i sensi di udito e vista bene attenti; al minimo rumore la sorgente viene “illuminata” dalla potente visione notturna della parte centrale della retina e, se riconosciuta come preda, viene ghermita con gli artigli (dei quali il mediano è addirittura seghettato) e uccisa sul posto.
Prede come piccoli uccelli vengono ghermiti nel sonno, al nido o sul posatoio ed ingoiati dopo una sommaria spennatura e senza testa, rituale questo forse macabro, ma sicuramente salutare per l’apparato digestivo del rapace, in quanto i becchi delle prede possono ferirne i delicati organi interni. La prole si sviluppa lentamente, ma appena in grado di volare viene allontanata dal nido anche di molti chilometri, perché la territorialità è molto accentuata e di conseguenza non vengono tollerati altri individui all’interno della propria zona di caccia. Notturno, elusivo e misterioso abitante di vecchi ruderi, il nostro “fantasma” è, come già accennato, un utile agente limitante il numero di roditori e solo per questo meriterebbe il nostro rispetto; inoltre, dato che anche l’occhio vuole la sua parte, qui garantisco personalmente: la bellezza del piumaggio e la singolarità dell’aspetto, ne fanno uno degli animali più belli della nostra avifauna. (Maurizio Teruzzi – foto dell’autore)
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