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Due parole su Giambattista Vico



Giambattista Vico (1668-1744), filosofo napoletano, è il ponte fra Sei e Settecento, periodo di notevole fervore razionalistico (soprattutto per gli effetti delle teorie di Cartesio) in un ambito ancora religioso, specie in Italia. La sua “Scienza Nuova” (prima e seconda) contiene un affascinante viaggio nella mente umana alla ricerca di un approdo sicuro, capace di tenere a bada la ragione, per Vico troppo pericolosa lasciata a sé. L’opera vichiana, ponderosa, scritta in punta di penna con prosa cesellata, oggi poco digeribile per via di continue e inafferrabili contorsioni, è animata da una preoccupazione fondamentale: dimostrare la laboriosità dell’uomo per quanto attiene al mondo che gli compete, senza che gli sia lecito prendersi licenze metafisiche.

Vico vede nell’uomo un essere superiore per grazia divina di stampo evangelico (finalmente il dio punitivo è stato messo in soffitta dall’autentica intelligenza religiosa), Infatti parla continuamente di provvidenza che corre prontamente in soccorso dell’uomo per aiutarlo nelle sue imprese. Le quali imprese hanno senso e valore sono in funzione dell’occhio del Padre, provvidenzialmente in grado di tenere a bada i suoi figli, da soli poco affidabili.

La cosa veramente interessante di tutto questo è che nel cuore del Cattolicesimo nasca un’idea in qualche modo rivoluzionaria, consistente nel riconoscimento, diciamo così, ufficiale (sancito da una tesi alquanto argomentata), di virtù intellettuali, nell’uomo, ben oltre i comuni disbrighi (i filosofi iraniani, su tutti Sohravardi, XII secolo, concepirono qualcosa di simile chiamato, in Occidente, “immaginale”, ovvero metodo per comunicare con la spiritualità, nella quale si nasconde il tutto).

Con questa tesi, il filosofo napoletano si rifà un po’ al neoplatonismo che di fatto fa prevalere sulla ragione incalzante portata dalla scienza. Quest’ultima, infatti, secondo il suo pensiero, non deve mettersi in testa di poter raggiungere il sapere assoluto in quanto lo steso appartiene solo alla divinità, la cui voce che indica e guida va ascoltata se vuole vivere bene. Siamo a un aggancio con la teoria kantiana che preclude all’uomo il sapere superiore ( sostiene, appunto, Kant nella “Critica della ragion pura”).

Tutto questo ha una logica legata al momento storico molto particolare. La Chiesa romana ha perso mordente e fascino da oltre un secolo, la religione è decaduta come riferimento principale, il laicismo, in pratica neonato, fa fatica a muoversi: la scienza potrebbe ingannarlo. Si vedrà che l’inganno è tutt’altro che un timore esagerato, ma si vedrà anche che l’uomo sarà in grado, con molto impegno e fatica, di togliersi dal pericolo, suo malgrado in un certo senso (finirà a bagnomaria nel relativismo).

Vico vorrebbe evitare qualunque soluzione laica: senza la guida divina l’uomo si perderebbe davvero in mille illusioni. Ma perseguendo ciecamente la provvidenza, dove mai andrebbe a finire? Dove mai è finito con la religione al centro della vita? È finito con il divincolarsi da essa, trovando le capacità per farlo. L’intellighenzia del tempo avrebbe dovuto accorgersi e aiutare direttamente la crescita. Vico, un timorato di dio, lo fa invece indirettamente, senza rendersene ben conto. Le virtù che il filosofo napoletano riconosce all’uomo (per semplicità, paradivine) sono proprio le molle per far spiccare un salto all’umanità, non sono strumenti per stare a guardare il cielo, con le mani in mano per quanto riguarda la progettazione del suo futuro.


Dario Lodi .




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