Alice Munro, premio Nobel per la letteratura nel 2013, autrice di tredici raccolte di racconti e di un romanzo, ambienta i suoi scritti in Canada, soprattutto nella regione natale dell’Ontario. La sua prosa, sempre scarna, precisa e tagliente, non indugia sulla descrizione decorativa delle bellezze paesaggistiche, ma si sofferma sui particolari delle mille vite indagate, appartenenti a tutte le classi sociali, con personaggi o in eterna fuga da se stessi o quasi sempre soli nel dipanarsi dei giorni. La sua tecnica narrativa si potrebbe paragonare alle esplorazioni che spingono la giovane Mary de Le case splendenti a chiedere e richiedere, ad amici e conoscenti, particolari sempre nuovi sulle loro vite.
Mary si ritrovava a esplorare la vita della sua vicina come un tempo aveva esplorato quella delle nonne e delle zie – fingendo di sapere meno di quanto sapesse, chiedendo loro di raccontare qualche storia che conosceva già; in qualche modo, gli episodi evocati riemergevano con qualche sfumatura diversa di contenuto, significato, colore, eppure assolutamente reali, come in genere le cose che sono almeno in parte leggenda. (tratto da “La danza delle ombre felici”)
Tra le infinite situazioni in cui la scrittrice declina la multiformità della vita umana, mi soffermerò ad analizzare le Buche profonde della raccolta Troppa felicità (Einaudi, 2014),perché il racconto mi sembra molto pertinente al tema dell’appartenenza che stiamo trattando. In esso il canadese Kent, a differenza del milanese Pietro de Le otto montagne e della calabrese Rosa de Il cielo comincia dal basso, dà un taglio netto e definitivo al legame con la famiglia, con il luogo natale e con la cultura di provenienza per cercare la propria e più vera essenza in un luogo e tra persone che poco o niente hanno a che fare con essi. Un taglio, anche, profondo come una delle buche in cui, all’età di nove anni, era caduto nella zona di Osler Bluff, dove era andato a effettuare un picnic con la famiglia:“profonde cavità… alcune delle dimensioni di una bara, altre anche molto più spaziose, come stanze scavate nella roccia”, buche comunque mortifere per Kent che, al tempo del College, si allontana completamente dal passato, ben conscio che quell’esperienza di pre-morte infantile“gli aveva garantito una consapevolezza maggiore”. Uno stacco definitivo, dunque, dal sé stesso di prima e la nascita di un nuovo Kent/Giona, che si sente più ricco del primo anche se è vestito di stracci, abita in uno scantinato e fa parte di una comunità che cerca l’elemosina e si nutre del cibo trovato nella spazzatura. “Lo fai anche tu?” gli chiede la madre che, dopo decenni, è riuscita a trovarlo in un infimo sobborgo di Toronto abitato da gente strana, gente straniera “che aveva da un pezzo attraversato la fase dell’adattamento”, gente non di rado“dalle posture stracche, spesso reclinate e dormienti” sui gradini dei luoghi pubblici.
Non potrei chiederlo agli altri, se non lo facessi personalmente. Ho dovuto vincermi. Quasi tutti abbiamo dovuto vincere qualcosa: poteva essere la vergogna. O magari il concetto di “mio”… I giorni dell’uomo sono come l’erba. Che oggi c’è e domani si getta nel forno… io vivo alla giornata. Davvero. Non puoi capire. Non faccio parte del tuo mondo e tu non fai parte del mio.
La crudezza della situazione e delle parole investe in pieno la madre soprattutto quando, al momento del saluto, il figlio la chiama col nome personale di Sally e l’avverte:
Non lo dire. Non dire: allora ci sentiamo.
Al che lei replica:
Magari ci sentiamo.
Ed è a quel magari, non corretto dal figlio, che la donna affida tutta la sua speranza per un futuro diverso che non sa se si potrà mai realizzare.
Luisa Ranieri
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