Se Pietro, il protagonista de Le otto montagne, cerca la sua vera appartenenza abbandonando sia i luoghi valdostani dell’infanzia sia quelli milanesi della vita adulta, la protagonista de Il cielo comincia dal basso (Rubbettino Editore, 2018), Rosa Sirace, percorre la via inversa, per riconfermare la sua più forte adesione all’ambiente naturale, sociale e famigliare calabrese dov’era nata e cresciuta prima del trasferimento per gli studi universitari a Perugia. La prima cosa, infatti, che capisce durante il viaggio di ritorno dopo la laurea in Filosofia, è che il suo posto è al Sud, nel paese dove c’è casa sua, in un vicoletto con sopra le stelle e i vasi di erbe aromatiche alla finestra, perché “il Sud ti lascia campare senza chiederti nulla, come una melanzana viola nei campi rossi di tramonto.”Sul treno che la sta riportando al paese, infatti, la giovane , che indossa “una maglia con le cuciture a vista”, davanti a una sconosciuta che le fa notare l’incongruenza di un simile abbigli amento in Calabria, si sfila subito l’indumento “e – afferma, – le cuciture ritrovarono il loro posto, e io il mio.”
E quando… si riconosce… il proprio posto… non se ne pretende uno diverso, perché l’angolino che ci spetta è tutto il paradiso di cui siamo capaci sulla terra. In cielo magari le cose cambiano.
Lo scritto, più che come racconto, si configura come una serie di appunti su di un’agendina, dono di Natale ricevuto da un’amica, altruista nonostante il dolore per la recente vedovanza. E, in virtù della generosità di quel gesto, Rosa si convince che quei fogli siano come dei comandi lucenti su cui appuntare l’essenza stessa della vita. Il tono della narrazione, che ci pone davanti a episodi semplici all’apparenza, ma in realtà portatori di profondi significati, si eleva sin dall’incipit, che si configura non come un semplice inizio, ma come un vero e proprio cominciamento:
La rosa fiorì lungo un sentiero battuto dal bestiame, e prese a profumare il posto che aveva. Non fiatò quando passarono gli armenti e per le loro zampe non sapeva più se fosse terra o petalo. Infine la rosa sorrideva.
Su tutti campeggia la figura della nonna materna, Antonia Cristallo, a cui la giovane si sente molto legata e di cui si sente davvero erede, sia a livello fisico sia morale. E la prima cosa che ha imparato Rosa, in base alla vicenda sia di lei sia della bisnonna, ambedue abbandonate dai rispettivi coniugi, è che nella vita i mariti “vanno e vengono” e che su di loro non si può fare affidamento. E per questo non ne ha mai cercato uno. La nonna gratifica con spazi di tenera libertà la nipote che la madre, la sarda Nicca Fiori, piuttosto avara di carezze, vorrebbe chiudere in una gabbia per proteggerla da ogni dolore, senza carpire
che sua figlia è come i papaveri che, recisi dal gambo e messi in un vaso, subito muoiono. Rosa attribuisce alla madre il titolo nobiliare di Baronessa di Babbumannu e al padre Guido quello di Visconte di Verolea perché, pur essendo di umili condizioni, lo meritano per il modo dignitoso di porsi davanti alla vita. Della nonna, affetta di Parkinson, Rosa delinea con tutta la delicatezza possibile la decadenza inarrestabile, a partire dai primi tremiti negli arti per giungere all’impossibilità di muovere i muscoli delle gambe ed essere condannata alla stasi. Ma è proprio nel sollievo che nell’ ultimo giorno di vita la malata prova grazie all’aiuto della nipote, del figlio e di una vicina che la fanno scendere dal letto e appoggiare i piedi a terra, è proprio in quel momento che la scrittrice mette in relazione le grandi verità che a poco a poco ha intuito sull’esistenza e cioè:
che ogni vita è importante, da quella del semplice fiore che è capace di “bucare il cemento”, a quella di ogni essere umano perché“quelli che nascono servono tutti al mondo, così come sono”;
che la scoperta del proprio posto può avvenire solo se mettiamo in intima relazione il nostro viaggio col viaggio degli altri;
che, anche alla luce anche di ciò che i Salmi suggeriscono, nella direzione ultima dell’esistenza umana il cielo comincia dal basso.
Sonia Serazzi dedica il libro anche all’antropologo Vito Teti, promotore del concetto di una Restanza Calabrese che si contrapponga alla dolorosa diaspora che ogni partenza dalla terra natale ha sempre comportato e comporta. Egli, afferma l’autrice, “sa la strada per tornare a casa anche quando ci perdiamo.”
Luisa Ranieri
Romanzo, menzione speciale all’Edizione 2018 del Premio Letterario Mario La Cava di Bovalino.
Foto: calabriainforma.it
Un ringraziamento a Metis
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